di Isabella Trovato

Maria Rita Pantani

I modellini dei mezzi delle forze dell’ordine in bellavista, dall’elicottero della polizia alla gazzella dei carabinieri, all’auto della guardia di finanza, e poi alla parete un dipinto che rappresenta la parodia di un processo in cui il giudice si addormenta mentre l’imputato viene ascoltato in aula, e infine sul tavolo di lavoro un calendario in cubi di legno di molti anni fa, nastrato in un angolo perché a qualcuno sarà caduto per terra ma è un ricordo troppo prezioso per metterlo da parte. Raccontato così, con dovizia di particolari, viene difficile immaginare che si stia parlando dell’ufficio di un sostituto procuratore della Repubblica, cioè di un magistrato da cui dipendono indagini, inchieste, processi e, nel bene e nel male, parte del futuro della vita di un imputato e quella di una vittima. Ed è ancora più difficile immaginare che non è l’ufficio di un pubblico ministero uomo, ma di un sostituto procuratore donna. Invece è proprio così. Perché dopo avere affrontato il silenzioso corridoio che dal Tribunale di Reggio porta alla Procura, alla stanza 17 del quinto piano c’è l’ufficio del sostituto procuratore Maria Rita Pantani.

Presidente della giunta distrettuale dell’associazione nazionale magistrati, protagonista a Reggio e non solo di numerosi convegni e incontri sul contrasto al fenomeno della violenza sulle donne, pubblico ministero in numerosissimi processi celebrati nel nostro palazzo di giustizia, nei tre dettagli presenti nel suo ufficio la Pantani svela molto di se stessa. I mezzi delle forze dell’ordine in modellini rappresentano lo stretto legame tra la sua quotidiana attività d’indagine e gli uomini e le donne di carabinieri polizia e fiamme gialle e non solo, con cui tutti i giorni è a contatto. Il dipinto di un processo in chiave ironica è un dono di un assistito del padre, noto avvocato penalista reggiano, scomparso nel 2017. E smorza un po’ i toni della classica tensione da dibattimento. E infine il calendario a segnare il tempo e a ricordarle tutti i giorni quel papà a cui il calendario apparteneva e che di certo deve avere avuto un ruolo da protagonista nella passione della figlia per il diritto penale. Pochi giorni ancora e sarà l’8 marzo. Non è a caso che siamo andati a trovare la dottoressa Pantani, al suo rientro a Reggio dopo essere stata ascoltata a Roma, in commissione giustizia, per due volte, sulle proposte di legge al vaglio delle Camere per inasprire il contrasto alla violenza di genere. La Pantani è stata interpellata perché oggi si può ben definire come uno dei magistrati più esperti in materia. Forse aveva già una sua predisposizione per la materia ma di certo il suo interesse è emerso in tutta la sua forza con l’evento reggiano che più di ogni altro ha segnato la storia del tribunale di Reggio, la strage in aula del 2007 in cui, durante una causa di divorzio, un uomo sparò contro la moglie e il cognato. Poi fu ucciso da un poliziotto.

Dottoressa Pantani quand’è che in lei scatta questo particolare interesse nel contrasto alla violenza di genere?

E’ stato un percorso legato alla mia attività, è iniziato molti anni fa, quando ero magistrato giudicante. Mi sono trovata davanti ad alcuni processi in cui ho percepito che le indagini erano lacunose e hanno inevitabilmente portato ad assoluzioni. Poi sono arrivata qui in Procura e qui c’era l’area di lavoro sul tema violenza e maltrattamenti e ho preso coscienza del fatto che c’era moltissimo da fare.

Tribunale di Reggio Emilia

Infine, quando nel nostro palazzo di giustizia si è consumata la tristemente nota strage del tribunale in cui, durante una causa di divorzio, l’albanese Clarim Fejzo ha sparato contro la moglie Vjosa, da cui si stava separando, e contro il cognato, Arjan Demcolli, mentre quest’ultimo tentava di disarmarlo. Lui fu ucciso da un agente. Io ero nell’aula accanto a quella in cui si è consumata la strage. Ero in udienza per un processo sul traffico di stupefacenti. E in aula con me c’erano due agenti di polizia. Quando si udirono gli spari, si temeva che fossero stati esplosi proprio per il processo per stupefacenti. Si è pensato a un tentativo per fare evadere gli imputati. Vicino a me c’era Stefano Marcaccioli, il poliziotto che poi è rimasto ferito durante questa sparatoria. Sono stata io a soccorrerlo. Non dimenticherò mai quei momenti. Andai poi a trovarlo in ospedale auspicando che per la festa della Polizia si sarebbe completamente ripreso. Fortunatamente così è stato.

Che successe a Reggio dopo la strage?

L’attenzione sul fenomeno è stata massima. Le stesse forze dell’ordine sono state sensibilizzate più di prima, anche con incontri formativi e aggiornamenti sul tema.

Quali sono oggi i dati a Reggio Emilia sulla violenza di genere?

Siamo in possesso di dati che si riferiscono al 2017-2018.

Nel 2017 abbiamo avuto 222 procedimenti per maltrattamenti, 158 degli indagati risultano nati in Italia, 94 all’estero. Tre non sono specificati. Nel 2018, i casi di maltrattamento sono aumentati e sono stati 231, con 135 indagati nati in Italia, 108 all’estero, e 12 non specificati. In materia di stalking abbiamo registrato 105 casi, 95 indagati sono nati in Italia, 22 all’estero, 4 non specificati. Nel 2018 i casi di stalking sono stati 123. 89 gli indagati italiani, 23 quelli provenienti dall’estero, 11 non specificati.

Le ho descritto l’origine degli indagati per spiegarle che il fatto che nella maggioranza dei casi siano italiani non vuol dire che questi siano più maltrattanti degli stranieri. Vuol dire invece che le donne straniere denunciano molto meno di quelle italiane. Questi numeri vanno letti in questi termini. Questo è un dato incontrovertibile. C’è un sommerso tra gli stranieri che non emerge.

Reggio Emilia viene da un’esperienza molto importante come quella del tavolo interistituzionale per il contrasto alla violenza sulle donne. Possiamo dire che la nostra città ha una spiccata sensibilità in materia?

Si possiamo dirlo e anzi le dirò di più. Il tavolo di lavoro e confronto che lei cita è stato istituito a Reggio Emilia nel 2006. Oggi, con le proposte di legge che sono in campo, questa esperienza reggiana è destinata a fare da apripista a livello nazionale per il monitoraggio del fenomeno. A Reggio fu voluto fortemente dall’allora Presidente del Tribunale Rosaria Savastano, recentemente scomparsa. Insieme a lei c’eravamo io, il dottor Cesare Capocasa vicario della questura di Reggio e promotore dell’istituzione di questo tavolo, e l’allora assessore comunale alle pari opportunità Gina Pedroni. E’ decollato nella sua attività proprio a seguito della strage del tribunale di Reggio Emilia perché ci si è resi conto che la vittima aveva denunciato più volte il marito ma queste denunce non erano state iscritte come minacce gravi, erano passate dal giudice di pace ed erano state registrate come minacce. Quindi non era stato fatto nulla per evitare il peggio. Una seconda criticità emersa dopo questa strage è quella relativa alla presenza delle donne presenti nel centro antiviolenza di Reggio Emilia. Fino ad allora le forze dell’ordine non avevano né il dato numerico né il nome di queste potenziali vittime. Si riteneva ci fosse un problema di privacy. Quindi con questo tavolo istituzionale furono firmati una serie di protocolli che oggi regolano queste situazioni e le forze dell’ordine hanno accesso ai dati. Oggi il tavolo è molto più vasto, ne fanno parte carabinieri e polizia, il pronto soccorso di Reggio, altre istituzioni. Ci si è anche resi conto che, soprattutto all’epoca, le denunce talvolta venivano circoscritte a normali liti in famiglia dal poliziotto o carabiniere che le acquisiva. La proposta di legge sulla violenza di genere prevede ora anche stanziamenti per la formazione delle forze dell’ordine su questi temi. E ancora, io personalmente mi ero accorta che quando le donne vittime di violenza arrivavano al pronto soccorso, spesso erano accompagnate dai loro stessi compagni che vigilavano anche durante la visita medica. Quindi i referti parlavano di cadute accidentali, cadute dalla scala, e altro. Queste situazioni sono emerse proprio nel confronto con i referenti del pronto soccorso. Abbiamo firmato dei protocolli, sempre nell’ambito di questo tavolo, per cui le donne che arrivano al pronto soccorso vengono accolte separatamente, e i referti non vengono più rilasciati in presenza dell’accompagnatore.

Dal suo punto di vista, ad oggi a Reggio è stata stravolta la visione che si ha di questo problema rispetto a prima?

Nel 2004 c’erano pochissime denunce, ora aumentano sempre. Ma ripeto, non è che Reggio Emilia sia una città piena di maltrattanti. Anni fa mi sono ritrovata a confrontare i dati nostri con quelli di Palermo e a Reggio si registravano più casi. Ma questo è solo perché nella nostra città si denuncia di più. La stessa casistica di maltrattamenti che vede un numero minore di indagati stranieri è dovuta al fatto che in molti casi ci sono situazioni di arretratezza nel nostro territorio nelle famiglie che provengono da determinati paesi e, quindi, assenza di denunce, con le donne che subiscono in silenzio, all’interno delle mura domestiche. A Reggio inoltre abbiamo anche un monitoraggio sulle mutilazioni genitali. Tempo fa è stato riscontrato un caso di infibulazione totale , non procedibile in quanto già prescritto: la ragazza ha infatti dichiarato di averla subito, molti anni prima, nel suo paese d’origine. Ne siamo venuti al corrente perché per la mutilazione genitale si procede d’ufficio e i sanitari, pediatri e ginecologi, hanno l’obbligo di segnare tutti i casi riscontrati. Siamo pertanto sufficientemente tranquilli sul fatto che questi casi non sfuggono. Certo è che se poi ci sono persone che non portano mai i figli dal pediatra, diventa più difficile arrivare a delle segnalazioni.

Guardiamo un caso concreto. La donna si reca al pronto soccorso e denuncia una caduta dalla scala

Molto spesso invece si tratta di spinte ricevute dal compagno. E la caduta procura lesioni. Il personale sanitario a Reggio Emilia segue corsi specifici per individuare queste fattispecie. Nei casi meno gravi però si può procedere solo su querela della parte offesa e spesso c’è reticenza da parte della donna. In questi casi il personale sanitario informa la potenziale vittima della presenza di centri antiviolenza a cui rivolgersi.

Resta il problema che la donna che è potenzialmente vittima, ritorna a casa con il suo accompagnatore, il presunto aguzzino

Se non denuncia si. Molti reati ripeto sono procedibili solo a querela. E’ una scelta della donna.

La presenza sul corpo della donna di ecchimosi o altro non può essere considerato un segnale spia?

Maria Rita Pantani

Come le dicevo, il referto che per noi inquirenti è un campanello d’allarme è quello relativo alle cadute accidentali, dietro le quali invece spesso si nascondono percosse. Quando la donna, dopo un periodo di maltrattamenti, prende coscienza della violenza che subisce e denuncia, confessa che le ‘famose’ cadute erano state determinate dai compagni violenti. A quel punto noi acquisiamo i referti. Ovviamente non stiamo parlando del caso di maltrattamenti ma di lesioni.

Sul piano giudiziario cosa c’è da fare dottoressa Pantani?

Occorrono nuove leggi, dal prevedere l’arresto in flagranza in differita, all’aumentare le pene , e poi soprattutto occorre pensare al dopo. Ci vorrebbero più fondi. In una recente proposta di legge, è previsto ad esempio che gli uomini che maltrattano possano ottenere misure alternative solo dopo un anno di trattamento. C’è un problema anche in merito ai centri antiviolenza per uomini. Maltrattante e stalker in genere hanno personalità estremamente seduttive e manipolatorie. Due o tre colloqui non bastano per ‘redimerli’. Ci sono poi, ovviamente, anche quelli che per cultura ritengono che la donna sia schiava e pertanto si sentono autorizzati a picchiarla. Io dico sempre: “difficilmente un uomo che ti ha sempre picchiato ti chiede scusa e poi non lo farà più”. E poi ricordiamo che in molte donne c’è una dipendenza anche economica dall’uomo perché una volta che questo viene allontanato da casa, alla famiglia viene meno la sussistenza economica. Per non parlare dell’assoggettamento psicologico spesso legato ai figli.

Veniamo a lei dottoressa. Quando inizia la sua storia di magistrato?

Nel 1993. Avevo studiato all’università di Bologna laureandomi in procedura penale. Poi ho fatto il concorso a Roma e sono stata inviata a Pavia come magistrato di sorveglianza. Avevo tre carceri, Pavia e Vigevano, e uno di massima sicurezza, Voghera. Sono stata la prima donna magistrato ad essere destinata all’ufficio di sorveglianza di Pavia. A Voghera per esempio c’era il collettivo verde in di cui faceva parte anche Andraous, detto il “killer delle carceri”, che aveva ucciso Turatello, mangiandone, per disprezzo, una parte del fegato. C’erano Maso, Vallanzasca, avevo moltissimi detenuti in regime di massima sicurezza – 41 bis – ed è stata davvero un’esperienza forte, d’impatto.

Cosa l’ha colpita particolarmente di questa esperienza?

Intanto l’approccio con i detenuti. Soprattutto a Vogherà dove c’erano i mafiosi siciliani, non pentiti. Accettavano di venirmi a parlare, ad avere un colloquio con me in quanto donna. Perché loro non riconoscevano lo Stato e quindi la magistratura. Non si sedevano per il colloquio perché dicevano che io ero una donna e per rispetto stavano in piedi.

Quindi applicavano la loro ‘cultura’, le loro regole, al colloquio in carcere?

Si, mantenevano le loro regole.

Perché per lei ha rappresentato un’esperienza così forte?

Intanto perché ero di prima nomina, era la mia prima esperienza. In quegli anni ho subito delle minacce ed anche un’aggressione

Chi l’ha aggredita?

E’ stata una detenuta. Nessuno degli uomini rinchiusi in quel carcere si è mai permesso. Anzi, come donna mi hanno molto rispettato.

Quindi diceva, arrivò a Reggio dopo 4 anni a Pavia?

Si, sono stata in Pretura, poi in Tribunale come giudice penale e dal 2003 sono in Procura.., che è in assoluto la funzione che preferisco . Oggi lo posso dire visto che sono passata da un’esperienza come quella della fase esecutiva, mi riferisco al tribunale di sorveglianza di Pavia, al dibattimento penale, anche in Corte d’Assise. Essere magistrato è, per me, il mestiere più bello del mondo.

Ne parla con l’entusiasmo del primo giorno. Cos’è che la appassiona così tanto?

Mi piacciono molto le indagini, intendo dal punto di vista investigativo, ma anche la fase del processo. E in questi ultimi anni ho potuto arricchirmi di molteplici esperienze. Sono stata applicata alla procura generale di Bologna, negli anni 2017 e 2018, e ho potuto sostenere l’accusa in secondo grado. Ho fatto anche delle richieste di estradizione per esempio. E poi recentemente sono stata applicata alla Procura della Repubblica presso il tribunale dei minori per alcuni processi. Anche questa è stata un’esperienza estremamente forte. Mi sono sempre approcciata con imputati maggiorenni. In questa esperienza invece ho potuto notare che i minorenni compiono efferati delitti come stupri o omicidi spesso con profonda inconsapevolezza del male inferto. Sono privi dei limiti degli adulti.

Questo dunque aumenta la ferocia?

Assolutamente si. E spesso hanno una mancata consapevolezza del disvalore del fatto perché parlano di fatti di una gravità impressionante con estrema leggerezza. E’ stata un’esperienza molto formativa. Poi sono state significative anche le esperienze in Procura generale: il secondo grado forma moltissimo perché per un pubblico ministero è anche un’occasione per scoprire eventuali errori o limiti nelle indagini.

A Reggio Emilia su che fronti è impegnata?

Faccio parte dell’area delle fasce deboli, reati contro la pubblica amministrazione, fino a due anni fa facevo parte delle misure di prevenzione di tipo patrimoniale per gli evasori fiscali. Sono stati una novità nel panorama questi maxi sequestri perché vanno oltre il soggetto evasore e colpiscono anche terzi. E faccio parte della giunta distrettuale associazione nazionale magistrati, ne sono il Presidente.

Di cosa vi occupate?

L’associazione nazionale magistrati si occupa di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri.

Nel mio discorso del 26 gennaio 2019 all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Appello di Bologna ho sollevato alcune criticità riscontrate nei vari incontri tenuti negli uffici giudiziari della Regione, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Forlì. Dalle carenze di personale amministrativo alla scopertura di organico dei magistrati. E’ positivo che nella legge di Bilancio 2019 abbiano considerato 3mila assunzioni nel campo amministrativo e 600 magistrati nell’arco del triennio, che non basteranno tuttavia a colmare le carenze di risorse.

Quando è stata invitata in commissione giustizia di cosa ha parlato?

Ho suggerito l’arresto in flagranza in differita, sulla falsa riga dell’arresto già previsto per i reati in occasione delle manifestazioni sportive e recentemente introdotto per quelle su piazza. Scatterebbe quando dalle telecamere si riesce a individuare il soggetto, essendo trascorsa la flagranza. C’è questa proposta di introdurre l’arresto in flagranza differita per i reati come i maltrattamenti e gli stalking entro le 48 ore dalla denuncia della parte offesa e questo per colmare un vuoto legislativo. E anche per coprire tutti quei casi nei quali le donne, vittime di violenze, denunciano i fatti non immediatamente dopo avere subito l’ennesimo episodio, ad esempio perché prive di un mezzo per recarsi in Caserma o in Questura o perché sorvegliate dal convivente. C’è una recente sentenza della Cassazione che dice che non si può procedere all’arresto in base alla mera denuncia della parte offesa, bisogna invece che le forze dell’ordine arrivino immediatamente, scoprano tracce di reato, come lividi o altro. Quindi, in assenza di segni di violenza, l’arresto non può essere effettuato e la donna ritorna nella casa che per lei è un incubo, con la sola possibilità di poter avvisare subito le forze dell’ordine in caso di pericolo. Nei casi più gravi però, questo tempo e questa possibilità, potrebbero non arrivare. Quindi io sostengo assolutamente questa proposta, di procedere all’arresto entro le 48ore dalla denuncia nei casi di pericolo. Poi, nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri, si prevede che la donna sia ascoltata dal pubblico ministero entro tre giorni dalla denuncia per capire se si è davanti a una denuncia strumentale o meno. In questo caso però, io propongo che ci sia un tempo e un termine tassativo perchè il giudice delle indagini preliminari possa decidere. Ci sono stati casi in cui, in attesa di pronuncia del giudice, di anche 20 giorni, la polizia si è trovata costretta a scortare la parte offesa perchè era terrorizzata all’idea di subire violenza. E purtroppo la conferma della pericolosità della violenza di genere arriva anche dai dati Istat, il femminicidio aumenta.

Chiudiamo con lei dottoressa. Cosa vede per il suo futuro ?

Spero di trasferirmi, andando via da Reggio. Sono ancora qui per ragioni legate alla famiglia. Sarà sempre una Procura, ma al momento meglio non aggiungere altro.