di Isabella Trovato

colonnello Cristiano Desideri

Appartiene a una famiglia che serve lo Stato da tre generazioni, il nonno paterno Agostino sottufficiale dell’Arma dei carabinieri, il padre Angelo generale di corpo d’armata e quindi il figlio Cristiano, anzi i figli perché il fratello, Andrea, come lui, è comandante provinciale dell’Arma ma a Ferrara. Stiamo parlando del colonnello Cristiano Desideri, comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Reggio, che la città ha conosciuto subito misurandone competenza e professionalità sul campo da subito. Si era insediato da appena un mese e mezzo infatti quando si trovò ad affrontare il caso del condannato di Aemilia Francesco Amato che a novembre del 2018 tenne sotto sequestro per otto ore i dipendenti della filiale delle Poste di Pieve Modolena.
Un colonnello con esperienze accumulate in vari campi durante gli anni passati, in Piemonte, in Sardegna e nella Capitale, e che proprio con la ‘ndrangheta si era già confrontato prima che a Reggio si parlasse di malavita calabrese e cioè tra la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni duemila, quando furono estirpati radicamenti ‘ndranghetistici nel territorio del basso Piemonte dove allora il comandante Desideri era in servizio.
Reggio Emilia oggi è terra di grande attenzione nazionale ed anche internazionale ormai sul tema del contrasto alla presenza mafiosa e per capire scenari presenti e futuri su questo tema e altri aspetti legati alla sicurezza sul nostro territorio, siamo stati al comando di Reggio in corso Cairoli per approfondire la conoscenza del colonnello e trarre nuovi spunti e punti di vista discutendone con lui.

Colonnello viene da una famiglia cresciuta nell’Arma dei carabinieri. E’ stata una scelta obbligata la sua?

“E’ stata una scelta assolutamente consapevole e studiata criticamente in tutte le sue sfaccettature. Conoscevo i disagi della vita di un servitore dello Stato che indossa questa divisa, chiamato a una costante mobilità sul territorio.  L’avevo vissuta con mio padre, poiché all’epoca era ancora più spinta di quella che un carabiniere vive oggi. Ho vissuto passando dal Veneto all’Alto Adige, dalla Sardegna alla Sicilia.  Io e la mia famiglia abbiamo vissuto con la valigia in mano.

Ha mai pensato a un altro tipo di carriera?

La scelta è maturata alla fine delle superiori. Ho avuto le mie difficoltà a intraprendere questo percorso estremamente selettivo, superando l’esame di ammissione all’Accademia militare di Modena alla terza prova. Sono entrato in accademia a 20 anni ma avrei comunque intrapreso una carriera nello Stato. Studiavo giurisprudenza all’università a Palermo. Come tutti gli Ufficiali dei corsi regolari, ho poi dunque fatto l’Accademia a Modena e due anni di perfezionamento presso la Scuola Ufficiali a Roma. Il primo servizio è stato alla scuola sottufficiali di Firenze per un periodo di tre anni dove ho svolto l’incarico di comandante di plotone e poi quello di comandante di Compagnia allievi sottufficiali. Durante quei tre anni mi sono occupato di addestramento professionale e di preparazione teorica. Noi ufficiali eravamo assistenti di cattedra dei magistrati che insegnavano diritto penale, diritto di polizia. Quindi ero docente e istruttore.

Quanti anni sono dunque che è nell’Arma?

Sono all’alba dei 30 anni di servizio. Mi sono arruolato nel 1989

In 30 anni di servizio cosa non dimenticherà mai anche a livello di partecipazione emotiva da parte sua?

Una delle inchieste che più mi ha toccato risale a quando ho comandato la compagnia di Tortona in provincia di Alessandria, dal ’96 al 2001. E’ stato l’omicidio dei sassi, un fatto di cronaca che toccò molto l’opinione pubblica. Morì una giovane sposa che si stava recando in Francia in viaggio di nozze, colpita dai sassi lanciati dal cavalcavia sulla Torino Piacenza da una banda di giovani del luogo. Era la notte del 26 dicembre 1996. Non lo dimenticherò mai. Mi colpì il fatto in sé per sé, la morte di questa donna e di come si può morire in maniera così assurda. Se già la morte è già qualcosa di incomprensibile, morire in viaggio di nozze sull’autostrada, a causa di un sasso di 5 chili che sfonda il parabrezza e ti uccide, credo che sia ancora più incomprensibile. E poi mi è rimasta impressa anche l’indagine, come arrivammo al gruppo di fuoco per poi scoprire che la ragione del folle agire era stata la noia, la pura volontà di giocare, in quella sera di un freddo 26 dicembre.

Ha avuto qualche esperienza all’estero che l’ha particolarmente segnata?

Si. Nei Balcani. Agli inizi del 2000 sono stato inviato in missione presso una unità, allora di nuova concezione, denominato Reggimento MSU (multinational specialized unit). Un reparto costituito da Carabinieri e forze di polizia ad ordinamento militare di altri paesi (Argentina, Romania, Slovenia, Austria). L’incarico assolto era quello di comandante di compagnia. Quella unità era di stanza a Sarajevo, ci occupavamo di concorrere al processo di pacificazione della Bosnia Erzegovina, prevenendo scontri inter etnici e disordini che potessero pregiudicare lo sforzo delle Nazioni Unite e delle altre Organizzazioni Internazionali operanti nel paese. Quindi ho vissuto questo momento in cui le tensioni sociali e interrazziali tra le componenti cristiane, musulmane, serbo bosniache erano ancora molto accese. Ho vissuto in prima persona l’orrore della guerra e del postbellico, quindi ho visto il dramma di una guerra civile appena conclusasi vista con gli occhi di un carabiniere, chiamato a prestare la propria opera in un territorio devastato dalla guerra.

E cosa ha visto?

Ho visto l’orrore negli occhi delle persone. Il nostro compito era quello di raccogliere informazioni ed evitare che fossero commessi crimini nei confronti delle popolazioni e delle organizzazioni internazionali soprattutto quelle sotto l’egida dell’Unione Europea o delle Nazioni Unite. Pattugliavamo questi paesi e queste aree rurali che erano state devastate dagli scontri tra le diverse etnie. L’orrore era nei corpi e nei cuori della gente, di una guerra civile in cui non c’erano stati campi di battaglia ma non erano mancati i massacri indiscriminati, da una parte e dall’altra. Ancora oggi ho negli occhi le immagini delle poche persone rimaste a Srebrenica quando le forze paramilitari di Karadzic nel 93-94 rastrellarono gli oltre 7mila maschi in età compresa tra i 14 e i 50 e li uccisero. Oppure l’islamizzazione delle donne a seguito dell’insediamento di forze paramilitari islamiche in aree del territorio controllate dai cristiani. In alcuni borghi questa islamizzazione si era spinta fino al fenomeno delle cosiddette spose di guerra, donne vedove islamizzate per il piacere e la forza di quelle realtà militari paraislamiche che si erano impossessate di quel centro.

Cosa facevate davanti a queste situazioni?

Noi dovevamo garantire una neutralità di fondo. Il mandato della N era quello di vigilare e pattugliare, indipendentemente dalle provocazioni che potevano essere poste in essere nei confronti delle forze stanziate sul territorio viste ovviamente in maniera ostile da questi soggetti.

Dunque colonnello due casi che l’hanno profondamente colpita sul piano umano

Il fattore umano non può essere mai disgiunto da un’analisi. Perlomeno, liberarsi completamente dal pathos credo che sia impossibile. Forse tenerlo distante potrebbe essere più produttivo da un punto di vista metodologico. Diciamo che quando l’indagine è completata e il caso è chiuso, è inevitabile che come uomo resti dentro qualcosa

Comandante noi l’abbiamo conosciuta subito a Reggio Emilia sulla scena del sequestro Amato

Dal mio punto di vista sono orgoglioso della risposta che l’Arma ha dato in questa circostanza. L’intervento è stato gestito in maniera ottimale a livello tecnico e operativo. La risposta è stata immediata. Diciamo che mi sono avvalso della collaborazione di militari professionisti capaci in ogni circostanza. L’obiettivo era quello di garantire l’incolumità degli ostaggi e di arrestare Francesco Amato possibilmente senza effetti o danni collaterali. Per fare questo ci siamo preparati durante le fasi dell’operazione pensando al peggio e dunque predisponendoci a valutare ogni opzione, derivata dai comportamenti che Amato avrebbe potuto porre in essere, nel corso delle ore. Il tutto sotto il coordinamento costante dell’Autorità Giudiziaria Reggiana. Mi riferisco all’intervento delle squadre tattiche del G.I.S., il gruppo di intervento speciale. Anche pensando che potesse esserci un’opzione B da praticare. Per fortuna ha prevalso l’efficacia della parola su tutto. Se si fosse creata una situazioney di stasi, si sarebbe proceduto con un eventuale accesso delle forze speciali.

Il vostro intervento è diventato un caso di studio

Si, ha ragione. Nelle settimane successive sono pervenute ai nostri uffici anche mail da alcune agenzie governative statunitensi. E’ stato studiato il nostro modus operandi. La notizia infatti era rimbalzata anche a livello internazionale. Ci si è stupiti di come sia stato isolato un caso di questo tipo con il dialogo e senza spargimento alcuno di sangue.

Possiamo dire che il protagonista per eccellenza nel caso Amato sia stato il negoziatore, però non solo lui

Il negoziatore è sicuramente una delle figure al centro di questa vicenda. In realtà i negoziatori sono stati due, uno di primo livello che era un maresciallo del nucleo investigativo ed un altro negoziatore che era di secondo livello, un militare specializzato del GIS che ha affiancato il primo. La prima fase, quella sino alla liberazione del primo ostaggio, è stata gestita dal nostro maresciallo, successivamente dalla tarda mattinata è subentrato l’altro negoziatore. I negoziatori traducono quello che emerge da un tavolo di lavoro che nella fattispecie era composto da me, dal procuratore della Repubblica Dott. Marco Mescolini, dal comandante della Legione carabinieri Emilia Romagna, Generale Claudio Domizi e dal comandante del GIS In base a quelle che erano le reazioni di Amato, si adattavano le strategie. Fino all’ottenimento del risultato, la resa di Amato.

Ma come ha fatto colonnello a gestire i suoi uomini sebbene ancora non li conoscesse tutti essendosi insediato appena un mese e mezzo prima?

Credo di poter dire che sicuramente conta l’esperienza di servizio, maturata negli anni e in diverse situazioni operative. Ma un aspetto che desidero evidenziare è che ho potuto fare affidamento sulla tranquillità e l’entusiasmo di questi uomini, la determinazione e il coraggio che hanno dimostrato e che mi hanno trasmesso. Dagli uomini presenti in campo arrivava quella serenità necessaria da capire di poter fare affidamento su di loro in ogni circostanza.

Colonnello a Reggio Emilia ormai si parla sempre di ‘ndrangheta. Lei che idea si è fatto?

Questo è un territorio estremamente sensibile. E’ un territorio che ha un’intrinseca delicatezza perché è un territorio ricco non solo economicamente ma anche in termini di potenzialità. E tutto questo alla criminalità indubbiamente fa gola. Allora che cosa dobbiamo capire dall’esperienza sin qui maturata? Dobbiamo fare nostri gli insegnamenti che arrivano dal processo Aemilia. Chi è interessato ad appropriarsi delle ricchezze cambia costantemente modus operandi e strategie, non muta invece il proprio obiettivo e quindi mantiene la capacità pervasiva sul territorio. E’ compito nostro dunque essere iper attenti a intercettare le nuove forme di organizzazione e infiltrazione. L’arresto dei figli di Amato per la tentata estorsione ai danni di alcune pizzerie, può rappresentare nel suo genere questa sensibilità e cioè la conoscenza del territorio da parte delle singole stazioni dei carabinieri e delle singole compagnie. Le cellule operative fondamentali dell’Arma dei Carabinieri.Il comandante della stazione di Cadelbosco di Sopra si è accorto che i figli di Amato stavano adottando comportamenti che non erano loro abituali. Dunque il rilevamento delle anomalie può produrre ottimi risultati se parte da una sensibilità operativa che arriva dalla conoscenza del territorio.

E lei dunque ritiene che Aemilia può avere rappresentato una buona scuola per la conoscenza del fenomeno mafioso da parte dei suoi uomini?

E’ stata fatta una lettura attenta degli atti processuali, anche prima del mio arrivo. Sicuramente il personale ha studiato e ha voluto elaborare bene tutto il vissuto, anche perché molti carabinieri hanno partecipato alle investigazioni.

Lei aveva già esperienze di contrasto al crimine organizzato?

In Piemonte nei cinque anni in cui ho retto la compagnia di Tortona mi sono interfacciato in una complessa indagine denominata “Galassia” in cui fu colpita una cosca delle ‘ndrine calabresi, dunque il crimine organizzato. Tra il ’98 e il 2000 indagammo un sodalizio criminale di cosche di Bianco e Plati dedite alla gestione dello spaccio di stupefacenti, rapine e estorsioni lungo l’asse Bianco (RC) – Milano – Como – provincia di Alessandria e con cui finanziavano la ‘ndrangheta. In quel caso, per la prima volta, le direzioni antimafia, distrettuale di Torino e nazionale, mapparono il Piemonte meridionale come area sensibile alle infiltrazioni. Molti degli indagati, i referenti locali di queste ‘ndrine, provenivano da zone della Calabria o da altre parti del territorio nazionale ma si erano già radicati con aziende strutturate e attività economiche legali.

Che idea si è fatto della ‘ndrangheta a Reggio Emilia?

Una realtà completamente diversa da quella che avevo vissuto, qui si tratta di soggetti radicati sul territorio in maniera stabile. Quella calabrese a Reggio è comunque una grande comunità, c’è una parte sana ed una parte che invece ha approfittato delle possibilità di questo territorio in modo negativo.

C’è un nuovo fronte di lavoro da parte vostra?

Oggi non ci aspettiamo che vengano commessi reati spia come quelli tradizionali dell’uso della violenza per prendere un’azienda con danneggiamenti al patrimonio, furti incendi o estorsioni. Oggi la metodologia è più subdola, non immediatamente percepibile e richiede una grande collaborazione del tessuto produttivo e cioè la penetrazione più economica e fiscale, come i subentri in società mediante capitalizzazioni o fatturazioni false. Oppure ad esempio l’introduzione di soggetti terzi nelle aziende, magari non riconducibili direttamente al crimine organizzato ma comunque al servizio della ‘ndrangheta.

Quindi anche professionisti? Possiamo sostenere di essere fermi alla manovalanza e che ci sarebbe un alto livello?

Ci sono sempre stati diversi livelli. Lo dimostrano i risultati che lo Stato ha conseguito negli ultimi trent’anni. La criminalità organizzata è un’impresa a tuttotondo.

Colonnello cambiamo argomento. In questi ultimi mesi, per non parlare delle ultime settimane, oltre a un morto in piazzale Europa per overdose, si registrano molti sequestri di droghe di vario tipo. Possiamo parlare di allarme?

L’eroina è una droga che si sta riaffacciando sulla scena tra i giovani. Questo lo possiamo confermare. Anche per il costo che è decisamente più basso di altre droghe. Stiamo poi registrando un sensibile aumento nello smercio al dettaglio. Il reato ha un numero oscuro estremamente elevato. Noi rileviamo i dati solo quando troviamo della droga. Possiamo dire che sono aumentati i sequestri di droga e quelli di eroina, una droga più facilmente accessibile in fatto di costi.

Colonnello quali sono oggi, dal suo punto di vista le priorità dell’azione dell’Arma sul territorio?

In un territorio come questo è fondamentale la prevenzione dei reati. E’ il dato più faticoso ed è peraltro quello che non emerge perché il cittadino non lo percepisce mentre per noi la prevenzione rappresenta il core business della nostra attività. Il nostro obiettivo è ridurre il numero dei reati. Poi c’è il contrasto ai reati predatori, furti e truffe in tutte le possibili declinazioni. Sono reati che aggrediscono questo territorio. In questo ambito si scatena la fantasia della criminalità, dal web alle truffe alle figure fragili come gli anziani. Terzo livello, più elevato dal punto di vista investigativo, che è quello del controllo di quei soggetti che noi sappiamo essere sodali o contigui alla criminalità organizzata