di Riccardo Caselli
Un giorno andai a trovare degli amici che vivono in una comunità spirituale in campagna, parzialmente distaccata dalla società.
Chiacchierando con uno di loro delle ragioni del suo distacco dal mondo moderno, mi colpì una sua frase: “L’altro giorno in TV c’era la gara d’auto. Nello sport e in tutto il resto ormai conta solo arrivare primi, secondi o terzi. Se non arrivi primo, secondo o terzo… sei uno scemo. Ma nella vita si può anche arrivare ultimi eh…”.
Ho riflettuto a lungo su quella frase e su cosa significhi il fallimento nella nostra società. E la realtà è che siamo terrorizzati dal fallimento. Sistematicamente, lo neghiamo.
Chi perde il lavoro deve dire al colloquio che è andato via per scelta, perchè voleva ‘nuove sfide’ o ‘continuare a crescere’ per paura di venire scartato dal selezionatore se rivelasse che – per ragioni anche fuori dal suo controllo – è stato licenziato.
Anche in internet vedo migliaia di persone che lanciano business che fatturano l’equivalente di due cappuccini e un cornetto, ma devono pompare anche il nulla; magari fanno una presentazione gratuita a Dubai senza nemmeno un volo in economy spesato e la lanciano sui social media come una ‘espansione internazionale’. Invece che dire semplicemente: ‘ho provato a rischiare inseguendo un sogno, ma purtroppo non sta andando, se potete sostenetemi, grazie’.
Ci sono persone che tengono nascoste persino le malattie, neanche fossero una colpa, solo perchè minano alle fondamenta la nostra immagine di forza e potenza. E vi è anche chi non sa mantenere il rapporto con la persona malata, che è a disagio nell’essere associato a una situazione fallimentare che però in ultimo tocca a tutti: il fallimento del nostro ‘progetto corporeo’, che come un’impresa nasce, impara, cresce, raggiunge un picco e infine va inesorabilmente a crollare.
Persino nella musica, che potrebbe donare solo gioia, comunione, verità, sollievo per i cuori, armonia, abbiamo introdotto la competizione. Abbiamo i programmi come X-Factor, dove occorre arrivare primi per vincere il premio. Persino nell’arte dunque abbiamo introdotto la categoria della vittoria che inevitabilmente implica anche quella della sconfitta o fallimento. Laddove invece dovrebbe esserci solo creazione e bellezza.
Abbiamo paura di fallire, di mancare il bersaglio, di accettare inesorabilmente la sconfitta, senza partita di ritorno, senza il giudice che può ribaltare il giudizio finale, senza il ripescaggio.
Anche quando parliamo di fallimento, è sempre un fallimento teso a una vittoria successiva. Tutti i guru della motivazione ci parlano di Edison che ha fallito mille volte, ma solo per poi diventare ciò che è diventato, dei fallimenti tesi a imparare, a crescere, ma sempre con la promessa del trionfo finale. Dell’urlo di Tardelli.
E invece nella vita vi è anche la sconfitta e punto. Quella di cui non vogliamo nemmeno sentir parlare. Ma vi è una frase che dice: “la vita ti mette in ginocchio, così puoi pregare meglio”.
Perchè il fallimento ci spoglia anche dell’inessenziale. Ci obbliga a fare silenzio, ad ascoltarci di nuovo nel profondo, persi come siamo a inseguire questa o quella medaglia luccicante. Ci libera dal fardello delle nostre ambizioni, per lasciare spazio solo a quello che conta davvero. Per farci ripartire solo da quello che amiamo, perchè solo con la forza dell’amore possiamo risollevarci dal crollo, non con quella dell’ambizione, dell’invidia, della competizione, dell’autocelebrazione.
Persino Steve Jobs, una volta estromesso dall’azienda che aveva fondato, nel punto più basso, ritrovò l’amore puro e originario per il suo mestiere e conobbe gli anni di maggior creatività in cui diede vita a due aziende quali Pixar e NeXT.
Ma anche se una volta messi in ginocchio e risollevatici, non dovessimo riuscire a tornare laddove eravamo, in fondo cosa conta?
Quello che conta davvero è che anche senza nessuna medaglia al valore, da eroi dobbiamo già affrontare le più grandi sfide: quella di perdere tutti coloro che amiamo, di accettare la vulnerabilità del nostro corpo fisico e la caducità di ogni bellezza e potenza. Ed imparare che alla fine di tutto, per donare a se stessi un po’ di amore e compassione, non serve arrivare primi, secondi o terzi. Si può anche arrivare ultimi.