Seconda parte

sul numero scorso….
La teoria evoluzionista di Darwin poggia su tre presupposti: ogni specie vivente fa più “figli” di quanti non ne necessitano per l’equilibrio ambientale in cui sono inseriti, gli organismi della stessa specie non sono tutti tra loro identici, la lotta per la sopravvivenza fa prevalere i più “attrezzati”. Lo studio dei resti fossili, a partire dall’Uomo di Neanderthal, ha consentito di ripercorrere la storia dell’uomo e delle sue origini. Gli Ominidi di due milioni di anni hanno lentamente conquistato la posizione eretta per interagire meglio con l’ambiente.

Molti anatomisti concordano oggi sul fatto del rapporto favorevole benefici/costi: le mutazioni hanno favorito la postura eretta per dare la possibilità di usare gli arti superiori come strumenti di presa e di trasporto degli oggetti, insieme a quella di acquisire un miglior controllo del territorio favorito dalla maggiore altezza, altra garanzia di miglior competitività con gli animali (tranne alcune eccezioni).
Inoltre, ogni vivente ha maggior successo nella continua lotta per la sopravvivenza quanto più garantisce la discendenza. Non tanto nel numero, ma nella capacità di crescere e lasciare in vita i nati, affinchè a loro volta possano prolificare. Qui occorre ricordare che la specie umana, al contrario degli altri mammiferi, non ha l’estro, ossia quel richiamo alla fecondità che si manifesta come desiderio all’accoppiamento mediante segni esteriori inequivocabili e consente la prolificità: non va in calore, può decidere di “fare sesso” senza che necessariamente nascano figli.
Una prima femmina preominide senza l’estro, ancora in incerta posizione eretta, avrebbe potuto accoppiarsi con un giovane, senza subire ostacoli da parte del maschio dominante il gruppo, richiamato solo dalle altre femmine in calore, e dar luogo a discendenze in cui altre figlie fossero prive di estro. L’insorgenza di difficoltà nell’allevamento della prole, prima inesistenti per la comunità, potrebbe avere avviato nel gruppo un nuovo tipo di rapporto genitoriale personalizzato (oggi diremmo, monogamo) tra femmina e maschio. Così la posizione eretta del maschio consentiva caccia e ricerca di cibo, liberava la locomozione con due arti superiori adatti al mantenimento della prole favorendo maggiormente la sopravvivenza. Anche se abbiamo usato il condizionale, si tratta di riflessioni avvalorate da scoperte scientifiche, non di semplici congetture.
Il bipedismo era dunque vantaggioso per le cure parentali e in definitiva per il gruppo che costituiva la comunità. Questo comportò, parallelamente, lo sviluppo della massa cerebrale in rapporto a quella dell’intero corpo che superò presto lo stesso rapporto identificabile in altri mammiferi. L’aumento delle dimensioni cerebrali non rispondeva solo alla necessità di controllo e coordinamento degli organi corporei, per gestire ghiandole e muscoli, ma doveva favorire anche l’adempimento di altre funzioni: ad esempio, quelle connesse al pensiero logico e quelle attinenti alla sfera psichica e affettiva. Il cervello dell’uomo si sviluppa così con una massa doppia rispetto a quella delle scimmie antropomorfe, fino alla ricerca della fonazione, della parola, ad un barlume di razionalità e di pianificazione delle azioni e del futuro per sé e per il gruppo.
Il regime alimentare si distingueva a quel tempo rispetto alle scimmie: se queste ultime si nutrivano di bacche, frutti, foglie, l’uomo mangiava anche la carne. Il sistema dentario era diverso e mentre quello degli Autralopiteci tendeva a rimanere nel tempo piuttosto simile a quello delle scimmie, quello degli Ominidi tipo “Homo” evolveva con altre arcate dentali, dimostrando una differente alimentazione dei nostri antenati diretti.
L’Ominide più antico (Australopithecus Afarensis) è un individuo di bassa statura, tarchiato, con un muso prominente ancora animalesco ed un cervello di capacità simile allo scimpanzè (400 cc): le femmine sono molto più piccole dei maschi. In sostanza, corpo da uomo, faccia da scimmia e postura eretta.
Dai denti ritrovati deduciamo che l’alimentazione era costituita da prodotti duri (noci, granaglie), da masticare molto prima della deglutizione. Una ragione per affermare che l’Australopiteco viveva già nella savana e non più nella foresta con le scimmie, che continuavano a mangiare frutti e vegetali morbidi.
Gli Ominidi vissero anche nella savana. E’ stata avanzata come ragione la comparsa degli eventi geologici e naturali che interessarono l’epoca tra 6 e 4 milioni di anni fa (Miocene-Pliocene). 200 milioni di anni di anni fa (inizio del Mesozoico) tutte le terre emerse erano riunite in un unico continente (Pangea), che poi si spaccò in due blocchi (al nord Laurasia e al sud Gondwana): nel mezzo, un grande mare (Tetide). In seguito anche i due blocchi si suddivisero in “zolle” minori che andarono alla deriva viaggiando sul mantello terrestre fluido sottostante. I due blocchi continentali collisero tra loro (e continuano ancor oggi) provocando terremoti, eruzioni di vulcani e accavallamento dei bordi (formazione delle catene montuose).

La zolla africana, muovendosi verso nord, si scontrò con quella europea: ne seguì la chiusura del grande mare Tetide e sopravvissero alcune “cicatrici”, quali il Mediterraneo, il Mar Nero e il Mar Caspio. A seguire, il Mediterraneo si prosciugò (forse perché non più alimentato dall’oceano chiuso da Gibilterra e per la forte evaporazione) divenendo un gran deserto, qua e là con alcuni laghi salati, e il clima si modificò radicalmente: dal nord Europa al settentrione africano dominò un freddo asciutto, cosicchè la foresta equatoriale, in precedenza estesissima, arretrò lasciando spazio a grandi savane. Fauna e flora si modificarono profondamente, piante ed animali faticarono ad adattarsi al nuovo ambiente, scomparvero molte specie e ne comparvero altre. Questo accadde anche nell’Africa orientale, ed i nostri antichi antenati furono separati in due gruppi: uno rimase a ovest in foresta equatoriale e uno ad est in savana. E’ in quest’ultimo che si svilupparono gli Australopiteci, che si differenziarono così definitivamente dagli animali. In tal modo non fu l’Ominide a trasferirsi dalla foresta alla savana, bensì fu la foresta a sparirgli sotto ai piedi.

Le mutazioni ebbero così un significato positivo e perdurante, poiché si svilupparono in un ambiente naturale tutto nuovo: i preOminidi svilupparono la postura, i muscoli, tipo e forma dei denti, in questo nuovo ambiente della savana, come caratteristiche importanti e fondamentali della nuova realtà abitativa.
La caccia ai fossili di Australopiteci fu lunga e proficua per tutto il ‘900 e i siti dei ritrovamenti ricchi ed estesi a tutta l’Africa, meridionale ed orientale. Nei siti erano presenti anche resti di leopardi, iene, antilopi, coccodrilli, tartarughe, ecc.. Voleva dire che gli Australopiteci predavano animali o erano essi stessi preda? Pur con qualche incertezza, si propende per la seconda ipotesi: furono trovati loro crani con fori di canini di leopardo. I leopardi trascinano le prede sugli alberi per divorarle in tranquillità, ma nell’operazione le ossa cadono in terra. Basta pensare che gli alberi vicini a quei siti crescono in terreni carsici in corrispondenza a spaccature del suolo che conducono a profonde caverne in cui ristagna l’acqua, per capire come i ritrovamenti siano conformi all’ipotesi fatta.