di Isabella Trovato
Reggio Emilia sta vivendo un momento storico di grande fermento nel mondo cinematografico con l’insediamento in città di importanti realtà produttive.
Ma la storia di Reggio incrocia il cinema molti anni prima, da questa terra sono passate produzioni eterne come la saga di Peppone e don Camillo.
In questo panorama che spazia tra i decenni di importanti produzioni si inserisce anche il cinema indipendente. A rappresentarlo è il reggiano 37enne Andrea Bonvicini, in arte Andrea Toy Bonvicini, direttore alla fotografia e produttore.
Una passione quella di Andrea nata sin da quando era piccolo, quando ancora nessuno poteva immaginare che quel bambino che collezionava lampadine spianava la strada che avrebbe percorso negli anni successivi, raggiunta la maturità.
Una passione poi maturata con l’assidua frequentazione del Blockbuster di via Emilia Ospizio, quando i film, appena 20 anni fa, ancora si noleggiavano. Un pezzo di storia che oggi non c’è più e che chi lo ha vissuto, come Andrea, porterà per sempre con sè. Lo stesso Quentin Tarantino, prima di esplodere in tutta la sua magnificenza come regista, lavorava in una videoteca.
Quando maneggiare una cassetta Vhs per un appassionato di cinema era come sfogliare un libro per un appassionato lettore. In questo humus matura il grande amore di Andrea Bonvicini per le immagini che lo ha portato a produrre oggi un cortometraggio, My son Thomas, in concorso per gli oscar italiani, i David di Donatello 2020. Siamo andati a trovarlo nel suo studio a Mancasale, tra sale di incisione discografiche, laboratori di correzione colore e luci e set, per conoscere la sua storia e apprezzarne la profonda cultura cinematografica.
Andrea cosa significa per un giovane come te, che al cinema dedica quanto più può, ritrovarsi con un cortometraggio che concorre per il più prestigioso e ambito premio cinematografico italiano?
Per me e il mio team di produzione è motivo di grande orgoglio. Abbiamo investito risorse e tempo per un anno, l’opera è un film muto in bianco e nero con un solo attore. Sul piano comunicativo una vera sfida. Le persone sono abituate a lavorare e vivere alla massima velocità, oggi si vive legati ai tasti di uno smartphone, il nostro tempo è dettato dai like sui social e dal bombardamento dei whatsapp. Il nostro cortometraggio mette alla prova la tenuta dell’attenzione da parte dello spettatore. E’ come riuscire a stare in silenzio quando si è in compagnia di un’altra persona. Chi regge il silenzio vuol dire che ha tante cose da raccontare. ‘My son Thomas’ che porta la firma alla regia di Alberto Santandrea è uscito nel 2019 e ha già ottenuto decine di riconoscimenti all’estero, ma sapere di essere in concorso per il David di Donatello per tutti noi è lo Zenit, uno dei punti più alti raggiunti.
Una passione la tua che nasce quando eri ancora un bambino e certamente allora non potevi realizzare ciò a cui ti saresti dedicato nel futuro. Ma quando scopri davvero che il cinema e la fotografia rappresentano la tua strada maestra?
E’ stato un passaggio naturale, non mi sono mai preoccupato o accorto di questo cambiamento, ho sempre cercato di ottenere la massima espressione artistica in ogni cosa che facevo e ogni giorno cerco di dare il meglio.
Andrea tu hai avuto l’opportunità di coltivare i tuoi studi cinematografici all’estero, spaziando da Hollywood e New York a Londra e Berlino. Quali differenze hai riscontrato nell’approccio al cinema in America rispetto a quello in Italia?
Sono due metodologie di approccio diametralmente opposte.
In Italia le istituzioni ti formano esattamente per il campo semantico per cui ti proponi, faccio un esempio. Se studi regia, fai regia. Sembra banale spiegato così ma è esattamente quello che accade. Per capire meglio facciamo l’esempio contrario.
In America chi si approccia a studi di regia si ritrova a seguire corsi per operatori, per attori, per montatori, entrando direttamente in contatto con tutti i ruoli coinvolti nella professione scelta. In questo modo lo studente può comprendere appieno se il campo scelto è davvero la strada che vuole percorrere. Comunque non si può dire che un metodo sia migliore o peggiore dell’altro. Sono semplicemente diversi.
C’è qualche esperienza che ritieni che ti abbia particolarmente formato?
All’ American Society of Cinematographer a Hollywood dove ho avuto modo di studiare con i più grandi Direttori alla Fotografia di tutto il mondo, la formazione e lo standard tecnico è ad un livello superiore, penso che sia stata una delle esperienze più significative della mia vita, e, come dico sempre ai miei colleghi dell’ “ASC”, per me tutte le volte che torno in clubhouse ( l’università del cinema, ndr ) è come tornare a casa “.
C’è stato un mentore nella tua formazione?
Ogni persona che si incontra ti lascia un pezzo della propria storia e cultura. A Los Angeles ho legato molto con Shelly Johnson, docente membro dell’associazione cinematografica, direttore alla fotografia di molti dei più grandi “ Blockbuster movie “ che vediamo oggi al cinema, che spesso ha sempre una parola di conforto o un consiglio da dare… e poi tante altre persone che hanno influenzato positivamente non solo la mia carriera ma tutta la mia vita.
I tuoi studi spaziano in vari ambiti. Non solo cinema ma anche paradossalmente cucina, psicologia, pittura, persino yoga. Ma cosa c’entra tutto questo con il cinema?
Tutto può avere a che fare con il cinema. La cinematografia è multidisciplinare, le influenze di più know-how sono fondamentali e le applico tutti i giorni, non vi è differenza nella quantità di sale in un piatto o nel miscelare i colori di un quadro o appunto in questo caso bilanciare le luci in un set, la base dell’ ingegnerizzazione è la stessa, cambiano solo i termini ma quelli con l’esperienza si imparano.
La fotografia nel cinema è una componente fondamentale. Lo dimostra il tuo stesso lavoro nel film My son Thomas. E’ la fotografia che parla.
Il mio mantra è ‘fai vedere non dire’ e cosi ho fatto. Ho cercato di trasmettere l’emotività non detta con i dialoghi, con tagli e compressioni di luce ben marcati.