di Giulia Misti

Ogni lettore quando legge, è lettore di se stesso“, scriveva Proust.

È anche questo il segreto per approcciarsi alla lettura ed apprezzarla. Riconoscere nelle pagine le pieghe più recondite della propria esistenza. Riscoprirsi o scoprirsi attraverso parole che danno forma alla memoria del passato, del presente, alle aspettative del futuro; parole che plasmano, dandovi un nome, sensazioni, suggestioni, ricordi, fantasie, sogni, paure. Leggere è sempre un viaggio. Anche dentro se stessi. È immergersi, anche perdersi nei multiformi altrove possibili, per poi ritrovarsi, al termine del viaggio, più ricchi e consapevoli…sempre qualche passo più in là dal punto di partenza.

« – Che abbiamo oggi Pasquale? – chiesi entrando in studio e pensando, nello stesso momento e per l’ennesima volta, che si trattava di un rituale di cui ero stanco.

– Vediamo… la Colella dovrebbe venire finalmente a pagare. Poi c’è il consulente tecnico del processo Moretti, la questione della lottizzazione; passa a prendersi le carte, ma dice di voler parlare con lei cinque minuti. E alle sette una cliente nuova.

– Chi è?

– Si chiama Delle Foglie. Ha telefonato ieri pomeriggio, ha chiesto un appuntamento il prima possibile. Ha detto che è una cosa grave che riguarda suo figlio.

– Delle Foglie e poi?».

Lorenza. Lorenza Delle Foglie. È grazie a lei che la penna, ironica, piana e coinvolgente, di Gianrico Carofiglio riconduce nelle aule del tribunale di Bari l’avvocato Guido Guerrieri, qui in una veste più introspettiva. Ne La misura del tempo (Einaudi) la storia personale del protagonista si intreccia con la storia processuale  di un nuovo caso da risolvere. Un continuo dialogo tra nostalgia e suspense, tra passato, “un’epoca di stupore che stordiva”, e presente, un tempo di sbiadite reiterazioni, in cui l’avvocato Guerrieri si interroga sui paradossi del tempo, trovandovi, forse, risposta.

«Hai mai fatto caso, Guido, a come la vita sembri accelerare con l’età?».

«Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. Nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere, o compatire. Se infine non si troverà lì, niente potrà avvertirlo: non un presagio, un campanello, un dolore, un acquazzone, niente. Non resteranno segni addosso. Dovrà, per qualche via, essere raggiunto dalla notizia: svegliandosi nell’albergo lontano in cui è fuggito; o sentendo di perdere un battito, prigioniero di un mezzo di trasporto ormai in ritardo. C’è una strada, un ponte da percorrere, corto qualche mese o magari mezzo secolo.

Così, in questa storia, non mi basta sapere l’emozione confusa di quando all’Irlandese, a Ermes , a Gaetano, la rispettiva ragazza ha comunicato di essere incinta. Vorrei sapere se, quando e come ciascuno di loro ha maturato coscienza della trasformazione. C’è stato forse un contatto, un’ansia diversa, qualcosa come un clic, una notte insonne?».

Roma, primi anni Ottanta. Sul fondale di un’Italia quasi reduce dagli Anni  di piombo, tre differenti coppie, tre differenti storie accomunate tutte da un’ecumenica presa di coscienza: il riconoscersi figli nel momento di una trasformazione, nel momento in cui si diventa genitori. E quel tempo in cui una primavera diventa estate è anche l’occasione di grandi speranze e di altrettanto significativi inganni. Con voce lirica e lieve, Paolo Di Paolo in Lontano dagli occhi (Feltrinelli) racconta una storia di struggente bellezza e profondamente empatizzante, perché «Niente ci accomuna come l’essere figli».

«È così che intrapresero quel viaggio Paolo e Pietro, padrone e servo, principe e porcaro. E dovettero imparare la teoria dei paesaggi che parevano scorrere oltre i finestrini opachi del mezzo militare che li trasportava. Ma erano loro che partivano, per andare lontanissimi, al corno grande della forca. Il paesaggio, per quanto fingesse di correre, restava esattamente dov’era e dov’era sempre stato e dove sarebbe rimasto. Dovettero imparare dunque che viaggiare è sempre dover mutare lo sguardo con ostinazione e, con ostinazione, superare l’ansia di quel mutamento. Perché i semplici nomi – alberi, monti, colline, ruscelli, nuvole, cielo, mare – non bastavano a definire quasi nulla di ciò che sfuggiva davanti ai loro occhi. Perché tutto ciò che sapevano, o credevano di sapere, all’improvviso appariva talmente ridotto da far risultare immensa, annichilente, paurosa, quella multiformità».

Pietro e Paolo, due amici – intimi -. Più forte il primo, più fragile il secondo. Due nomi – non casualmente  biblici – che attraversano il tempo camminando e correndo avanti e a ritroso, in un alternarsi di analessi e prolessi, lungo quel “tratturo pietroso” che porta a Nuoro, lungo quella strada che li vede ora bambini, ora adulti. In Pietro e Paolo (Einaudi) ci sono le descrizioni chirurgiche di Marcello Fois, c’è sempre la Sardegna, bella e insidiosa, con i suoi inverni metallici testimoni di quell’inizio di Novecento in cui la guerra impazza. E c’è un patto, c’è fede, e forse anche un tradimento.

« – Sei tornato?

«– Non me ne sono mai andato. Aggrappati a me».

«C’era una volta un prigioniero… No: c’era una volta un bambino… Meglio ancora: c’era una volta una Poesia…

Anzi, facciamo così: c’era una volta un bambino che aveva il papà prigioniero.

“E la Poesia?” direte voi. “Cosa c’entra?”

La Poesia c’entra perché il bambino l’aveva imparata a memoria per recitarla al suo papà, la sera di Natale. Ma, come abbiamo spiegato, il papà del bambino era prigioniero in un Paese lontano lontano.

Un Paese curioso, dove l’estate durava soltanto un giorno e, spesso, anche quel giorno pioveva o nevicava. Un Paese straordinario dove tutto si tirava fuori dal carbone: lo zucchero, il burro, la benzina, la gomma. E perfino il miele, perché le api non suggevano corolle di fiori, ma succhiavano pezzi d’antracite. Un Paese senza l’uguale, dove tutto quello che è necessario all’esistenza era calcolato con cosi mirabile esattezza in milligrammi, calorie, erg e ampère, che bastava sbagliare un’addizione – durante il pasto – per rimanerci morti stecchiti di fame.

Stando cosi le cose, arrivò la sera della vigilia, e la famigliola si trovò radunata attorno al desco, ma una sedia rimase vuota».

La sera di Natale del 1944, nel campo di concentramento di Sandbostel, un prigioniero narra una storia ispirata dalle tre muse Freddo, Fame e Nostalgia. Viene musicata e accompagnata dal coro degli altri internati. È una favola raccontata al vento, incaricato di riferire quelle parole, cariche di amore e malinconia, a tutti i bambini, a tutte le mamme, a tutte le nonne.

Nasce così La Favola di Natale (BUR) di Giovannino Guareschi. La storia di un viaggio magico, onirico e avventuroso intrapreso da Albertino, insieme con il suo cane Flik, la nonna, e la Lucciola, per incontrare il papà lontano. La storia di un commovente sogno di libertà e speranza.

«Esistono infiniti modi di mettere in tavola un pasto, a seconda di che tipo di cuoco si è. Quella che qualcuno può considerare una cucina semplice può rivelarsi per qualcun altro un incubo culinario. Per me, per esempio, “cucina semplice” significa potermi fermare dal fruttivendolo sulla via di casa, prendere un paio di ingredienti dall’aspetto invitante e preparare qualcosa entro venti o trenta minuti dal mio rientro».

Simple non significa soltanto semplice. Per il famoso chef di origini israeliane, Yota Ottolenghi, è un acronimo che si declina nei principi di Superveloce, 10 Ingredienti o meno, Meglio preparare in anticipo, Presente in dispensa, Liberi… di fare altro, Estremamente facile. Con Ottolenghi SIMPLE (Giunti) Ottolenghi, con Tara Wigley ed Esme Howarth,  propone un metodo per rendere la cucina semplice, rilassante e divertente all’insegna del “Minimo sforzo e massimo gusto”.

Dai Funghi e castagne con zaatar agli Asparagi al forno con mandorle, capperi e aneto, dalle Melanzane al forno con acciughe e origano alla Burrata con uva alla griglia e basilico, dalla Tartarre di trota con burro fuso e pistacchi al Pollo arrosto primavera con limone in salamoia e alla Torta di mele speziata, 130 ricette in rigoroso stile “ottolenghiano” per colori, sapori e atmosfere mediterranei, ossequiose dei crismi di abbondanza, generosità, freschezza e sorpresa, ma al contempo semplici secondo almeno uno dei sei parametri culinari.

«Nessuno mi ha insegnato a scrivere, non ho mai imparato tecniche di scrittura, e per dirla tutta non ho mai studiato molto. Allora come ho fatto a imparare a scrivere? Ascoltando la musica. Cosa conta di più nella scrittura? Il ritmo. Se in un testo non c’è ritmo, nessuno lo leggerà. Perché mancherà quel senso del movimento che è come una pressione dall’interno, e porta il lettore avanti, pagina dopo pagina». Un famoso scrittore giapponese ed un altrettanto celebre direttore d’orchestra si incontrano nei pomeriggi tra il novembre 2010 e il luglio 2011. Sono Haruki Murakami e Ozawa Seiji e il risultato è Assolutamente musica (Einaudi). Sei conversazioni e quattro interludi sulla musica – un amore onnipresente nelle opere di Murakami – , sul suo rapporto con la scrittura, sulla sua storia, sul suo significato. Parlare di musica apertamente e onestamente, sottolineando le rispettive modalità di dedicarvisi, era il suo intento. Penna e bacchette, così, seguendo un ritmo fatto di successione “di forme di movimento, di suoni e di pause, di luce e di buio, di frenesia e di quiete”, dialogano serratamente, in totale libertà, componendo un’opera capace di accendere una “scintilla” e di creare una “magia”.

«”Come ti paiono queste orecchie?” sentì chiedere.

La voce era grave e seria. Non sapeva da dove venisse, ma sembrava molto vicina.

Era la prima volta che udiva un suono.

“E ora faccio gli occhi”. All’improvviso gli apparvero forme e colori.

L’uomo fece un passo indietro per ammirare la propria opera e poi gli praticò due buchi al centro della faccia. Nuove sensazioni lo invasero: gli odori caldi dell’estate, essenze e profumi avvolgenti. Con gesto esperto l’uomo sfoderò un coltello e fece un’incisione sotto i buchi del naso, regalandogli un bel sorriso. Tirarono fuori da una bisaccia un abito simile al loro, lo imbottirono di paglia finché non raggiunse il volume desiderato e gli infilarono due vecchi stivali di pelle colorati con un nastro blu. Una mano afferrò la sommità del suo cranio e lo fissò al corpo di paglia. “Questo fantoccio spaventerà per bene i corvi! Sembra davvero un uomo”.

«Ma è un uomo!…” borbottò quello con la voce grave, infilandogli un vecchio cappello in testa».

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» sosteneva Calvino. E Il Mago di Oz di L.F.Baum, ora per Rizzoli nella nuova rilettura di Sébastien Perez e illustrato da Benjamin Lacombe, rende pienamente omaggio a tale considerazione. Pur mantenendo sottesa alla narrazione la metafora e l’aspra critica alla società americana dell’epoca, Perez conferisce un’aura più poetica alle avventure della piccola Dorothy e dei suoi compagni di viaggio nel magico Regno di Oz, il cagnolino Totò, lo Spaventapasseri (qui voce narrante), l’Uomo di latta e il Leone. Tutti alla ricerca di qualcosa che in realtà si cela dentro se stessi, i personaggi esprimono la bellezza dei valori del riconoscimento e dell’accettazione della diversità, della solidarietà e della compassione.

Un racconto sempre attuale e magico che grazie anche alle splendide illustrazioni, colma l’animo e l’occhio di grandi e piccoli.

«La cosa più strana di quello strano viaggio fu che venne inaugurato da una parola – non una parola particolarmente evocativa, bensì un banale conio linguistico ampiamente in uso dal Cairo a Calcutta. Si trattava di ‘bundool’, che significa “arma fa fuoco” in molte lingue, inclusa la mia, il bengali o bangla, e non è estranea neppure all’inglese: attraverso l’uso coloniale è arrivata fino all’Oxford English Dictionary, dove è riportata col significato di “fucile”. Ma non c’erano né pistole né fucili il giorno in cui il viaggio ebbe inizio, né la parola intendeva riferirsi a un’arma. E fu questo il motivo per cui catturò la mia attenzione: perché il fucile in questione era parte integrante di un nome, Bonduki Sadagar, che si potrebbe tradurre come “mercante di fucili” ».

Un saggio sulla migrazione e sul cambiamento climatico incastonato in un avvincente  romanzo d’avventura è L’isola dei fucili (Neri Pozza) di Amitav Gosh. Abile narratore, l’autore indiano tesse con maestria i fili di un racconto profetico, attuale e globale, allignante le proprie radici nei secoli tra folklore, miti e leggende.

Da Calcutta a Venezia (“destinata forse a finire sommersa”!), da Los Angeles al Bengala, il mirabolante viaggio intrapreso dal protagonista – un commerciante di libri rari e oggetti d’antiquariato, d’origine bengalese trasferitosi a Brooklyn – alla ricerca di un leggendario “mercante di fucili”, è rivelatore dell’ormai irreversibile guerra tra profitto e Natura.

«Caro L’ettore, prima vorrei dire, scusa perle parole che scrivo male.

Perché sono una volpe! Cuindi non scrivo propio

Perfetto. Maecco comò in parato ha parlare e scrivere

bene così!»

A parlare è Fox 8, la Volpe n. 8 della sua esigua tribù. Ascoltando, nascosta, le fiabe della buonanotte narrate da una mamma al suo bambino e le conversazioni degli adulti, ha appreso foneticamente la lingua degli “humani”, adottando, così, un idioma “sui generis”.

Dopo il dolente e originalissimo Lincoln nel Bardo George Saunders torna con un testo altrettanto iconoclasta, Volpe 8 (Feltrinelli), una favola dalle tinte noir rivolta principalmente agli adulti e impreziosita dalle illustrazioni di Chelsea Cardinal.

È un breve apologo ora ironico, ora poetico, ora amaro, brutale e drammatico, ora, commovente e di una sconcertante attualità (la sua stesura risale al 2013), strutturato in forma di lettera rivolta al mondo scritta da una volpe, simpatica e sognatrice, che racconta del rapporto tra il mondo umano e il mondo animale e naturale, lanciando un monito sull’operato disumano del primo.«Cosa c’è che non va in voi, gente?».

«È successo d’estate , molti anni fa.

Tra le nebbie che affollano, adesso i miei pensieri di vecchia, una luce rischiara una piccola porzione di mondo.

Chiudo gli occhi e rivedo, intatta, la bellezza radiosa della campagna. Riesco a distinguere ogni dettaglio, nel fremito delle ciglia, colpite dai raggi obliqui del mattino.

Avevo dieci anni, e il mondo stava per affondare nell’abisso. Ma per me era solo estate e campagna.

La più bella estate della mia vita».

Dedicato alla madre scomparsa nel 2014, cui la voce narrante, protagonista, si ispira, L’estate dell’incanto (Piemme) di Francesco Carofiglio racchiude tutta la poetica di cui l’autore barese è capace. È l’estate del 1939, una stagione ambientata in un territorio estatico, dove tutto può accadere, che corre come un filo tra un prima e un dopo la deflagrazione della guerra. Corre tra le due vite di Miranda che, sempre bambina, attraversa quella cesura che coinvolgerà il mondo intero.

C’è la spensieratezza dell’ultima volta, lo stupore, motore del racconto, c’è la perdita, il dolore, c’è la saggezza dell’età, la fatica del presente, ma anche la curiosità immutata. E c’è ancora l’incantesimo nella rievocazione del ricordo di quell’estate.