Era febbraio, si parlava di uno scenario di epidemia in oriente molto preoccupante e, sollecitata da curiosità e interesse, iniziai a documentarmi, a leggere. Ricordo che a lavorare andavo con esortazioni di prudenza, sollecitavo a uscire poco.
Esercito la professione di infermiera da qualche anno, in una residenza per anziani autonomi e ho sempre stimolato a fare, ad andare, a restare attivi. Per la prima volta, mi rendevo conto che tenevo alla cautela. Con la fine di febbraio e le scuole chiuse, ricordo di aver avuto contrasti con alcuni ospiti, perché non volevano esser trattenuti. Da lì a poco tutti siamo piombati nell’emergenza, con un lockdown generale e uno scenario senza precedenti, inedito. In struttura, in pochi giorni, la febbre è stata in progressione, tra operatori e tra utenti. Un crudele e inarrestabile effetto domino.
Con il personale a casa, i turni sono stati riorganizzati per assistere e far fronte non solo all’ordinario, ma anche allo straordinario. La mia professione si traduce nel prendersi cura delle persone, nell’esser al fianco e camminare in percorsi non sempre semplici. Bene, questo tempo si è tradotto in una palestra di vita inaspettata. Abbiamo dovuto riorganizzare tutto con principi differenti, allestendo zone Covid, e garantendo livelli di intervento personalizzati per gravità. Chiudere tutti i rapporti con l’esterno, con le persone care è stata l’operazione, necessaria, emotivamente più incomprensibile.
È stato necessario riaffermare un clima che doveva, nell’emergenza, non dimenticarsi mai di una carezza, di una videotelefonata, di una partita a carte. Purtroppo ci hanno lasciato alcune persone, le più fragili per patologie pregresse o per età troppo avanzata e il vuoto amplificato lo abbiamo avvertito tutti insieme. Fortunatamente quasi tutta la famiglia della Casa Protetta ha lottato e ha vinto compatta. Ora che si stanno tutti negativizzando e le stanze stanno riprendendo l’aspetto accogliente del passato, sono rimasti i ricordi. Ricordi di rientri a casa nel cuore della notte, di un centro storico che si svegliava col donarci ristoro in focaccia appena sfornata o paste per colazioni al volo, di premure inedite, di parenti preoccupati che non hanno mai lasciato cadere il sostegno, riconoscenti con noi operatori, di nonni e nonne pronti a tenersi per mano. Non è stato semplice: morte, sofferenza, umanità, resilienza, professionalità, creatività, stanchezza senza limiti, non connotano universi semplici! Restituisco alla generazione anziana, duramente colpita in questa pandemia, un infinito applauso e soprattutto profondo rispetto.
(Sara)
Sono un’infermiera e lavoro in un piccolo ospedale della Lombardia. Il mio reparto si è trasformato velocemente in un reparto “Covid 19”: ricordo di non avere dormito quella notte, perché provavo un misto di emozioni, paura, ansia, incertezza.
Non sapevo cosa mi aspettasse davvero. Quando però poi sono arrivata al lavoro, tutto questo era come se fosse passato.
Insieme alle mie colleghe abbiamo cominciato con la vestizione, compresi tutti i presidi di protezione, operazione che da sola richiede circa 15 minuti. Ci siamo aiutate e ci siamo date coraggio a vicenda.
E’ iniziato cosi il mio primo giorno di lavoro nel reparto con pazienti contagiati dal virus. I nostri pazienti erano molto più spaventati di noi, qualcuno mi ha chiesto “morirò?” E io non sapevo cosa rispondere….
Sono ormai due mesi che lavoro nel reparto dedicato al Coronavirus e ammetto che i turni sono davvero molto faticosi. “L’armatura” che indossiamo ci protegge ma nello stesso tempo arriviamo alla fine della giornata stremate, dopo tante ore di lavoro, a volte anche 11 ore, compreso il turno di notte. Tante ore anche senza bere, mangiare, andare al bagno.
E poi arriva la fine del tuo turno e ancora non è finita, perché un altro momento critico e difficile è anche quello della “svestizione”, in cui è necessario avere la massima concentrazione e cautela perché i tuoi “abiti” sono contaminati dal virus.
Quando finalmente sei libero da tutte le protezioni, finalmente respiri meglio e ti sembra di rivivere, poi ti guardi allo specchio e ti vedi rovinato, con le vesciche sul viso e le unghie che si rompono per le tre paia di guanti che hai portato. Poi torni a casa dai tuoi affetti e hai paura…paura di toccarli, di abbracciarli.
Il tuo bambino di 5 anni ha il desiderio di giocare con te e tu sei tanto tanto stanca, vuole correrti incontro per abbracciarti ma anche lui ha imparato che per un po’ la mamma non si può abbracciare.
E quando sei a casa ti rimane un senso di profonda tristezza, lo stesso che hai in reparto dove tantissimi pazienti ci hanno lasciato.
Ma poi pensi che fortunatamente molti di più sono guariti e sono stati dimessi e hanno potuto fare ritorno nelle proprie case….e allora sapete cosa si pensa?
Che sono loro i veri EROI…e questo ti dà la forza per ricominciare tutto di nuovo il giorno dopo.
(Veronica)