Io sto bene e lavoro. Mi ritengo fortunata. Lavoro da casa, sono insegnante. Ma non è facile insegnare da qua, da questa postazione ma… ma… la scuola sta andando avanti, gli istituti ‘garantiscono’ il diritto all’istruzione e l’anno scolastico volge ormai al termine, in questo modo qua, a distanza, da REMOTO, con le VIDEOLEZIONI, le REGISTRAZIONI, gli MP3.
La scuola dunque non si è fermata ma questo non vuol dire che ha perseguito i percorsi definiti nel settembre 2019, in ERA pre-covid, che sembra ormai remota. Ha cambiato delle ‘cose’ e non tanto i contenuti, ha cambiato le ‘strategie’. Sperimentando. Provando e anche sbagliando per poi rivedersi e fare il meno peggio.
Quindi. Quello che manca in questa scuola a distanza non è il ‘contenuto’, che in qualche modo c’è. La cosa che manca è la interazione anche se un poco di interazione nelle lezioni sincrone si prova a ricreare. Si prova.
La cosa su cui siamo tutti d’accordo secondo me è che la didattica è importante e va bene anche così, ma la scuola è fatta anche di relazioni indispensabili sia per la maturità affettiva dei ragazzi, sia per una buona gestione delle emozioni, in modo particolare per i miei che sono adolescenti e che stanno vivendo un periodo di grandi trasformazioni.
Il mio pensiero ora è questo: dobbiamo progettare (e non solo pensare) e da subito a una nuova organizzazione scolastica in presenza perché rimandarlo a settembre è troppo tardi. Perché i ragazzi a settembre saranno ‘una classe avanti’, e anche in scuole nuove, in una realtà scolastica da progettare tutti insieme: istituzioni scolastiche, enti locali, regioni, stato e organizzazioni sindacali…
E adesso, dopo 52 giorni, che sta succedendo? Sta succedendo che per molti dei miei alunni, l’attenzione all’attività scolastica è diminuita, scarseggia, soprattutto per chi ha bisogno (ha sempre avuto bisogno) di una forte interazione ‘affettiva’. Di legami. E magari nemmeno ha una famiglia (non in senso fisico e ci siamo capiti). Tra questi Alex e Cristian e Chiara e Giuseppe e Filippo e Jacqui e Matilde e Mohammed…. Poi i ragazzi, dico poi molti ragazzi, stanno manifestando reazioni di sconforto, stanchezza, avvilimento. Quello che all’inizio hanno vissuto come gioco e vacanza si sta rivelando anche a loro preoccupante e indefinito e pericoloso e per niente giocoso. Sono comparse indolenza e apatia, che ci stanno in questa situazione qua e spetta a noi spronarli il più possibile, a noi della scuola (insegnanti) e a ‘voi o loro’ di casa (genitori). E si fa quel che si può.
E allora prendiamoci del tempo per stare loro vicino, anche con una storiella, una carezza virtuale o un dolce acquistato per il dopo cena da condividere insieme dopo una giornata di lavoro che immagino per alcuni genitori, quelli fortunati però, impegnativa da tutti i punti di vista, anche emotivo.
E poi c’è chi da 52 giorni vive in spazi angusti, affacciati sul mondo solo da miseri balconi, se il balcone lo hanno.
55 GIORNI DI LOCKDOWN -1 DALLA FASE 2
Io ho iniziato da subito a riflettere su questo periodo e sulla scuola di domani, molto prima che i giornali e i social cominciassero a farlo. Ho vissuto le prime settimane in modo confuso, indefinito, irreale, e mentre le vivevo mi sono buttata sul “vediamo cosa riesco a fare col fai da te”: ho lavorato senza orari, senza tabelle di marcia, un po’ alla rinfusa, inventando, attivandomi su gmail, drive, classroom, registro elettronico, Meet (ma non su telefono personale ma qualcuno lo ha fatto). La situazione era senza precedenti, eccezionale e anomala.
UN FILM MAI VISTO
Non c’è stato il tempo per discussioni pedagogiche, per la preparazione (se non pregressa), per l’adeguamento alla situazione, sia emotivo che tecnologico, per il monitoraggio degli strumenti, dei microfoni o delle telecamere o delle fibre a banda più o meno larga, soprattutto non c’è stato il tempo di controllare la funzionalità degli strumenti in dotazione agli alunni (i cellulari di cui tutti dispongono non sono buoni device per la didattica a distanza o per la relazione educativa, servono personal computer o tablet).
Non c’è stato il tempo perché l’emergenza Covid-19 ha preso in sopravvento. Su tutto. Ed ecco che ‘in fretta’ la scuola nelle vesti dell’insegnante ha agito, cercando di mantenere ‘coerenza’, ‘oggettività’, ‘professionalità’, senza perdere il controllo (diciamo la testa), e senza dimenticarsi degli studenti, a cui tutto è rivolto.
Ricordo che da scuola sono praticamente scappata, da un giorno all’altro. Come sfollata, come evacuata. Nemmeno ho potuto recuperare la mia roba. Era lì che ero abituata a lavorare e lì ero abituata a lasciare alcuni oggetti personali e alcuni strumenti di lavoro. Libri. Quaderni. Materiali di approfondimento o recupero.
E da un giorno all’altro, a distanza, da casa, da remoto, ho provato a riprendere le fila del discorso e cioè le fila del discorso con le mie classi, entrando nelle case, nell’intimità, nelle camere da letto, nei soggiorni, nei salotti. Ma non in tutte le case.
Alcuni alunni e per molto tempo hanno tenuto spenta la webcam per vergogna o imbarazzo, per non mettere in mostra pareti spoglie o tavole non apparecchiate a dovere. Chissà! Mica le situazioni sono come quelle che vediamo in tv, in diretta internet dalle case dei vip e dei Professori o degli intrattenitori.
E persone fuori dalla scuola hanno cominciato a divulgare, a destra e a manca, l’acronimo DAD: didattica a distanza (o FAD, formazione a distanza ma se ne parla meno).
Eccezionale, la DAD, certo, ma per niente innovativa e giusta anzi giustissima ma per gli adulti (gli utenti delle università). Una DAD che nella scuola dove lavoro io, la scuola dell’obbligo, una scuola frequentata da preadolescenti e adolescenti, è utile certo ma solo in parte perché la scuola dove lavoro io ha bisogno anche e soprattutto di relazione, di legami, di assertività e empatia. Nella mia scuola la DAD ‘arranca’ e la fa tornare praticamente indietro, ai tempi in cui gli alunni venivano lasciati fermi lì, seduti e immobili, per essere riempiti di contenuti, come ‘contenitori vuoti’.
Fotografia della lezione sincrona, che per molti insegnanti traduce la DAD: alunno fermo, insegnante che parla. Oppure: alunno vuoto insegnante che riempie.
Nella DAD molta parte della didattica innovativa, delle attività laboratoriali, dei percorsi cooperativi (se non la classe capovolta) è faticosa.
E se vogliamo anche solo parlare di tecnologia, indispensabile per la DAD… che dire… anche questa difetta: non sempre la linea funziona, spesso è a scatti o manca l’audio o mancano le immagini e va comunque sempre a senso unico, poco alternato: ‘o parlo io o parli tu’. Punto.
Oppure ‘parlo io e tu ascolta’ che è perfetto per gli atenei dove lo studente tace e prende appunti. Mentre per i mie studenti, dal corpo e dalla voce che stanno cambiando, le gambe e le braccia che non sanno dove mettere, mentre i ciuffi storti e arruffati nascondono gli occhi, non basta.
E poi gli alunni in difficoltà, di quelli che facevano notizia prima del Covid, adesso dove li mettiamo? I BES i DVA? E gli alunni persi chissà dove, quelli che abbiamo raggiunto con computer in comodato d’uso, chiavette per il collegamento, tablet acquistati in emergenza … eh! Di loro che si dice?
E di quello che succede in casa?
Francesca che non sta ferma un attimo con il microfono sempre acceso e le chiedi di spegnerlo ma non lo fa perché vuole farsi sentire, Luca che ha bisogno di conferme su tutto, anche sul non detto, Lorenzo che non si fa vedere, Filippo che tace mentre in classe parlava sempre, Martina che ti fissa mentre la sorella più piccola salta dalla letto alla seggiola e dalla seggiola alla libreria, Mohammed che è chiuso da cinquantacinque giorni in cinquanta metri quadri insieme a mamma, papà e quattro fratelli…
Ma noi insegnanti, con discrezione e buon senso, esperienza, responsabilità la abbiamo presa in carico questa nuova scuola e nuova didattica e nell’ottica della ‘libertà costituzionale dell’insegnamento’ la abbiamo arricchita col nostro bagaglio culturale, la nostra esperienza, sensibilità, creatività, fantasia e voglia di rimettersi in gioco e di imparare cose nuove.
Abbiamo riprogettato, riprogrammato non i contenuti ma le strategie e abbiamo anche scoperto che poi i ‘nativi digitali’ non sono tanto più bravi di noi che nativi non siamo, che anche loro fanno fatica a risolvere gli inciampi tecnologici e i problemi di connessione, mai visti prima e ora emergenziali.
Abbiamo selezionato materiale, indicato altro materiale in rete, stimolato l’autoapprendimento e la curiosità, la metacognizione (parolona vero!), la critica.
Il gioco. Sì anche il gioco. E l’ironia, per quanto mi riguarda. E adesso che fare?
Progettare e subito la scuola del futuro, fatta di relazione e innovazione per le situazioni di emergenza (e non solo) e di nuovi spazi (classi meno numerose, e ben tenute, pulite) e di nuovi tempi (orari settimanali).