Dott.ssa Marchesi, un’emergenza che è durata due mesi e che ancora non è finita. Quando e come in AUSL a Reggio avete compreso che uno tzunami si stava abbattendo anche sulla nostra provincia?
La sua è una precisazione giusta e direi doverosa: non siamo fuori dall’emergenza. Diciamo che siamo fuori dall’ondata che ci ha investito da fine febbraio e ci auguriamo di rimanerci, per cui l’invito alla prudenza è per noi in questo momento fondamentale per consolidare i risultati ottenuti. Ci siamo accorti che stava arrivando l’emergenza semplicemente osservando quello che stava succedendo a ovest: dalla Lombardia c’è stata purtroppo una discesa molto lineare che ha investito prima Piacenza poi Parma e subito dopo noi.
Noi abbiamo sempre osservato con molta attenzione quello che avveniva nelle aree più colpite della nostra regione. Sapevamo che quanto stava accadendo a Piacenza e a Parma, dopo qualche giorno sarebbe avvenuto anche qui. A inizio marzo sono arrivate le misure prese dal Governo, le ordinanze della nostra Regione, che sono state progressivamente messe in atto e che hanno contribuito ad arginare questa discesa da ovest verso est. Ormai però noi ci eravamo già dentro. La nostra fortuna è stata quella di poter contare su qualche giorno di anticipo vedendo quanto succedeva più a ovest. Parlo ad esempio della riconversione dei posti letto. Inizialmente infatti la pressione si è registrata soprattutto sugli ospedali, o almeno questo era quanto emergeva.
Il 20 di marzo siamo arrivati ad avere 170 polmoniti in pronto soccorso nel giro di 24 ore, ma il giorno prima ce ne erano state poche di meno. Di questo picco di casi alcuni, i meno gravi, venivano mandati a casa, ma molti erano da ricoverare. Da qui la gestione dei posti letto è ovviamente diventata un problema, che dalla fine di febbraio e per tutto il mese di marzo ci ha letteralmente investito. Poter osservare quanto accadeva vicino a noi con qualche giorno di anticipo ci ha permesso di riconvertire progressivamente i posti letto, fino ad arrivare ad avere più di 700 posti letto Covid.
Settecento posti letto Covid?
Sì, siamo arrivati ad avere oltre 700 posti letto dedicati al Covid su una dotazione di 1500, quindi quasi la metà. Tra il 9 e il 10 di marzo abbiamo aperto in fretta e furia l’ospedale Covid di Guastalla occupando 3 piani di un’area che avevamo disponibile. Un’altra caratteristica di questi casi di polmonite è stata che si presentavano sempre nel tardo pomeriggio, verso le 18 o 19 di sera. A quell’ora si creava una pressione importante nei pronto soccorsi aperti, in particolare a Reggio e a Guastalla.
Per quale motivo secondo lei?
Non è semplice capirne il motivo ma probabilmente il paziente aspettava la giornata per vedere se c’erano miglioramenti e con la paura di affrontare la notte pensava di rivolgersi al pronto soccorso. Qualunque sia il motivo i momenti più critici erano quelli del tardo pomeriggio e prima serata. A fine marzo siamo arrivati ad avere fino a 650 persone ricoverate contemporaneamente, anche se in realtà i ricoveri totali sono stati più di 2000. Gli accessi totali di pazienti positivi al pronto soccorso sono stati 3600. Sono numeri veramente molto consistenti. A questi si aggiungono oltre 2.800 accessi nei 16 “Ambulatori Covid” gestiti dalle cure primarie disseminati su tutto il territorio provinciale.
La possibilità di essere stati sempre qualche giorno avanti al virus ci ha consentito di ricoverare tutti i nostri cittadini all’interno della nostra provincia, cosa che purtroppo ad esempio a Piacenza e Parma non sono riusciti a fare. Per questo motivo abbiamo accolto da Piacenza e da Parma qualche paziente nella nostra provincia, quando loro non sapevano più come gestire i ricoveri o dove mettere i malati. Piacenza addirittura ha dovuto aprire un ospedale da campo e infatti è stata la città che ha subito l’urto maggiore proprio perché si trova al confine con la Lombardia.
In un’intervista ha affermato che il 15 giugno sarà il giorno in cui dovremmo vedere i risultati
Sì, e ne spiego il motivo: le riaperture progressive e scaglionate delle attività produttive, ci porteranno il 15 giugno, quando tutto sarà riaperto da più di due settimane, a renderci conto del reale impatto globale della riaperture. Se ci sarà una accelerazione nelle riaperture, il quadro potrebbe essere chiaro anche prima. Dobbiamo comunque aspettare almeno un paio di settimane da quando tutto sarà tornato a regime per avere il quadro completo.
I possibili effetti delle aperture del 4 maggio per esempio, ancora non li vediamo. Se poi i comportamenti saranno stati corretti, se si seguono tutte le raccomandazioni, dall’uso della mascherina, al lavaggio delle mani, dal distanziamento sociale all’evitare gli assembramenti, tutte misure che ormai conosciamo molto bene, allora l’impatto sarà contenuto. Ed è quello che noi ci aspettiamo: che l’effetto non sia devastante.
Quando ritiene quindi che inizieremo a vedere gli effetti delle riaperture del 4 maggio?
Vedremo qualcosa già dalla prossima settimana. Ora hanno aperto le grande industrie poi dovremo vedere l’apertura dei negozi e la ripresa della vita sociale, pur se ancora con le limitazioni, e questo proprio perché l’emergenza non è ancora finita!
La voglia di riprendere la vita normale è condivisibile e ce l’abbiamo tutti. Le indicazioni che si stanno dando sono molto importanti, ed è essenziale rispettarle. So che non è facile ma ci dobbiamo impegnare.
Dottoressa, da una parte ora l’ospedale va incontro a una graduale riorganizzazione, dall’altra, nel malaugurato caso in cui il virus dovesse ripresentarsi in maniera aggressiva, l’AUSL ha pronto un piano d’azione ormai “consolidato”
Diciamo che a febbraio era tutto da inventare mentre ora invece no, perché abbiamo l’esperienza fatta in questi due mesi. E’ anche per questo motivo che noi non ritorneremo allo status quo ante, ma dovremo tenerci comunque dei margini di cautela.
Si legge che il virus si è attenuato, questo ce lo diranno i virologi, noi possiamo dire che le misure di contenimento, le diagnosi precoci, le tante diagnosi che abbiamo fatto, le terapie somministrate tempestivamente, tutti aspetti che all’inizio non si conoscevano, hanno contribuito ai risultati che vediamo oggi, con pochi casi positivi e pochissime persone in terapia intensiva.
Dai primi di marzo a oggi è cambiato il mondo e questo grazie alla conoscenza che abbiamo acquisito strada facendo, con l’esperienza nostra e con quella anche di altre parti d’Italia, delle altre province della nostra regione in particolare.
A fronte di un’emergenza come il Coronavirus, c’è qualcosa che a suo avviso andrebbe completamente rivoluzionato nel sistema sanitario?
In generale possiamo dire che tutta la parte che attiene alla sanità pubblica, – e quando dico sanità pubblica non intendo pubblico-privato, intendo pubblica cioè che chi si occupa della salute della collettività, quindi tutti quei servizi che si occupano di prevenzione e di tutela della salute pubblica, che negli ultimi anni di tagli al Servizio Sanitario Nazionale sono stati trascurati a favore di altri settori, nella convinzione, errata, che alcuni problemi appartenessero ormai al passato.
Si è pensato ad esempio che le malattie infettive non fossero più un’emergenza come lo erano state tanti anni fa, oggi dobbiamo quindi tornare sui nostri passi perché abbiamo visto e toccato con mano che le malattie infettive possono tornare e quando questo accade c’è bisogno proprio di chi è in grado di gestire la salute della collettività.
Gli investimenti dovranno quindi essere sui servizi di sanità pubblica, e sulle cure primarie, perché è lì che si intercettano in modo tempestivo gli eventuali contagi e si può intervenire con tempestività.
A livello provinciale abbiamo toccato con mano l’efficacia di questi interventi sul territorio attraverso l’esperienza degli “ambulatori Covid” e delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) dedicate all’assistenza domiciliare dei pazienti Covid. A marzo siamo stati tutti investiti, con i pronto soccorsi pieni e i medici di medicina generale presi d’assalto, e ci siamo dovuti dare un assetto.
Questo assetto, fatto di ambulatori dedicati all’attività Covid, di USCA, di indagini epidemiologiche tempestive e di isolamenti, di squadre di tamponatori rimarrà in piedi a lungo, così come i Posti letto ospedalieri dedicati.
In questi mesi tante persone hanno evitato di fare ricorso al pronto soccorso perché avevano timore del contagio: sono saltate visite urgenti per volontà degli stessi cittadini. Oggi le chiedo, c’è ancora timore o i cittadini possono accedere senza alcuna paura agli ospedali?
E’ importante che chi ha patologie acute si rivolga in sicurezza al pronto soccorso, dove le persone vengono valutate all’ingresso e i flussi sono separati.
Dappertutto noi abbiamo triage dove si intercettano persone sospette COVID, da indirizzare in apposite zone filtro in attesa della conferma diagnostica che da alcuni giorni può essere fatta in modo ancor più tempestivo grazie ad una nuova tecnologia di cui sono dotati, al momento, gli ospedali di Reggio Emilia e di Guastalla. Una volta avuta o meno la conferma il paziente viene correttamente indirizzato in “area pulita” o in “area Covid”.
Quindi, lo sottolineo nuovamente, chi ha sintomi riferibili a patologia gravi da trattare tempestivamente, come ad esempio infarto o ictus, o sospetti di pèatologie onco-ematologiche, non deve aspettare, ma deve rivolgersi alle strutture e per essere curato adeguatamente.
Quale è stato per lei il momento più difficile da superare professionalmente e umanamente
Direi che sono stati fondamentalmente tre i momenti più duri: uno è stato proprio quel periodo di marzo in cui tutti i giorni al pronto soccorso arrivavano decine e decine di polmoniti che dovevano essere valutate e ricoverate.
C’era sempre la paura di non farcela, anche se alla fine per fortuna ce l’abbiamo fatta. Non abbiamo mai dovuto mandare via nessuno, lo ribadisco. Siamo riusciti a far fronte al momento di grande emergenza ma non ne eravamo sicuri e sono state serate davvero molto difficili per tutti. Il nostro sistema informatico ci consentiva in ogni momento del giorno e della notte di avere il polso della situazione e anche questo ci ha aiutato a gestire al meglio le situazioni.
L’altro momento difficile è stato sicuramente quando il virus ha iniziato a circolare in modo pesante all’interno delle strutture per anziani. Questo problema riguarda tutto il mondo e ha riguardato anche Reggio. Noi lo abbiamo affrontato insieme con gli enti gestori, perché le case per anziani non sono strutture nostre e gli interlocutori sono tanti. In ogni caso a partire dal 19 di marzo, appena abbiamo avuto il sentore che il virus si stava diffondendo all’interno di queste strutture, abbiamo affrontato il problema in maniera decisa di concerto con la conferenza territoriale sociale e sanitaria (CTSS). Questo è stato un altro momento critico perché sapevamo quanto sono fragili le persone che vi sono ospitate e quanto le strutture, per le loro caratteristiche intrinseche, favoriscano purtroppo la diffusione.
Un altro passaggio delicato è stato quando dovevamo capire come evitare le diffusione all’interno delle famiglie. Quindi sono stati tre gli step, e mano a mano che cominciavamo ad arginare da una parte , si apriva un altro fronte. L’ultimo è appunto stato quello delle diffusioni all’interno delle famiglie. Non sono generalmente casi gravi però ci siamo resi conto che molti dei contagi avvenivano proprio all’interno dei nuclei famigliari, di conseguenza abbiamo dovuto mettere in piedi un sistema che ci consentisse di essere molto incisivi al domicilio: diagnosi, trattamento, isolamento. Abbiamo dovuto riorientare quindi la nostra attenzione, inizialmente focalizzata soprattutto sull‘ospedale , e girare lo sguardo verso le case delle persone, perché i contagi stavano avvenendo soprattutto all’interno delle famiglie.
Abbiamo capito che non sempre all’interno dei nuclei famigliari le persone riuscivano ad isolarsi in modo efficace, abbiamo così messo in piedi gli “hotel Covid” strutture alberghiere dove è possibile fare un isolamento totale e dove quindi ospitare le persone che a casa non riuscivano a fare un isolamento adeguato. Abbiamo insomma dovuto agire su più fronti diversi: prima in ospedale poi nelle case per anziani e infine presso i domicili e le famiglie. Sono stati questi i tre passaggi principali, ognuno per il suo verso difficile e impegnativo.
Un’ultima domanda: un pensiero da parte sua al personale socio sanitario
Guardi, il pensiero per i nostri operatori è un pensiero che mi commuove, e io non sono una che si commuove facilmente, perché ne ho viste ormai tante. Devo dire però che mi commuove pensare ai momenti di entusiasmo e alle sofferenze degli operatori che hanno vissuto momenti molto difficili, anche perché hanno assistito pazienti soli. Non dimentichiamo infatti che tutto questo il paziente l’ha affrontato da solo, perché non potevamo e non possiamo tuttora far entrare accompagnatori o permettere visite. Il nostro personale si è prodigato davvero in tutti i modi per curare ma anche per assistere e rendere possibili i contatti con i famigliari, con le famose videochiamate che nei reparti sono nate spontaneamente, dal cuore degli operatori.
Il mio pensiero quindi è sicuramente di ringraziamento per tutti quelli che sono stati in prima linea, che hanno vissuto il dramma e che hanno contribuito a uscirne. Davvero un grazie a 360 gradi.
E grazie anche a tutti coloro che hanno reso possibili le riorganizzazioni, supportando tutte le azioni massicce che si sono rese necessarie e che sono state davvero tante. Sono tante le persone che hanno collaborato: dagli operatori della sanità pubblica, all’ufficio tecnico che ha rivoluzionato i reparti, il servizio di informatica che ha rivoluzionato tutti i collegamenti, l’ingegneria clinica che ha reso fruibili in tempo di record tutte le tecnologie, i medici di organizzazione.. l’elenco è lunghissimo e nessuno me ne voglia se non riesco a citarli tutti, diciamo che ognuno nel proprio ambito ha fatto la sua parte. Poi è innegabile che a chi è stato in prima linea va il mio grazie più commosso. n