di Dario Caselli
Se si osserva il percorso di formazione del progetto di Recovery Plan predisposto dal governo e si leggono i contenuti, per quello che viene pubblicato, l’impressione che subito se ne ricava è riassumibile in una frase dell’ex ministro del Tesoro Giovanni Tria: “se dico che per andare al di là del fiume mi serve un ponte, esprimo un bisogno, ma non sto presentando un progetto”.
L’impressione è che in quelle ridondanti 160 pagine – i francesi sono stati molto più stringati – siano elencati ambiti di intervento e che non vi sia una selezione di progetti concreti nei sei ambiti previsti dal piano, con una stima precisa dei costi e un calcolo in termini di benefici e risultati attesi per la crescita del Paese.
Nel piano si dichiarano degli stanziamenti sui singoli capitoli e ciò spiega perché in pochi giorni, dopo le polemiche renziane, l’allocazione delle risorse sia molto cambiata.
Non si potrebbero spostare con un tratto di penna decine di miliardi di euro da un ambito all’altro, se dietro ci fossero progetti veri e strutturati.
E’ positivo il fatto che sia aumentata la quota destinata agli investimenti e soprattutto quella dedicata a nuovi investimenti, rispetto a quella destinata a sostituire finanziamenti già stanziati per progetti già approvati e mai partiti o in fase iniziale.
Vi è poi il dubbio che un Paese che non riesce a spendere i fondi strutturali europei, riesca a spendere bene in soli sei anni questa montagna di denaro.
Per questo il piano dovrebbe essere accompagnato dai progetti di riforma che gli consentano di camminare, come quella della pubblica amministrazione, della giustizia, del mercato del lavoro e delle politiche attive e quella del welfare. Riforme che come dice Romano Prodi, dovrebbero essere fatte con l’accetta e magari condivise con l’opposizione. Il Recovery supera l’orizzonte di questa legislatura. Preoccupa il fatto che mentre si parla di queste centinaia di miliardi come di una manna che salverà il popolo italiano durante la traversata del deserto, non solo non vi sia uno straccio di discussione sulle riforme sopra citate, ma neppure un minimo confronto su dove si voglia andare, una volta si parlava di politica industriale.
Gli investimenti pubblici infatti sono efficaci se finalizzati non solo ad aumentare la domanda, ma soprattutto se aumentano gli investimenti privati, senza i quali non vi sarà crescita sufficiente a sostenere la montagna di debiti accumulata.
Non si può non rilevare che dopo mesi di parole, ancora non sappiamo chi governerà questo mastodontico cantiere, una volta tramontato il tentativo di Conte di avocare a sè tutta la partita.
Per impedire a Salvini di avere i pieni poteri, attraverso le elezioni, ammesso che le vincesse, l’ex avvocato del popolo si è preso i pieni poteri, senza neppure essere eletto.
Perché è evidente che in assenza di una governance definita, la gestione passerà dalla Presidenza del Consiglio e non cambierebbe molto la nomina di un sottosegretario al Recovery, soprattutto se fosse il vice di Zingaretti, Andrea Orlando, che non riesce neppure ad essere eletto nel suo collegio.
Ad ora la sensazione che in Parlamento vada una scatola vuota, il cui contenuto, a sentire Renzi, neppure il ministro del Tesoro Gualtieri, ha letto.
Sarebbe una tragedia se il dibattito si trasformasse nell’ennesima maratona oratoria, dove tutti chiedono di aggiungere progetti, magari strampalati, come l’idea dei grillini di usare il Recovery per tagliare le tasse, senza che nessuno si occupi delle schede progettuali, della valutazione degli obiettivi, dei risultati attesi e degli strumenti di attuazione.
Magari nel Piano c’è tutto, ma a sentire maggioranza e opposizione, nessuno lo sa.
Di certo non lo sanno le forze economiche e sociali che da tempo dovevano essere chiamate a lavorare al piano e che hanno assistito un po’ attonite alla parata degli Stati Generali e al successivo rapido accantonamento, ovviamente senza lettura, del piano Colao, che qualche idea la proponeva. Per questi dubbi, che speriamo infondati, temiamo che il Recovery si rivelerà un parziale fallimento, come lo è stata in gran parte la gestione economico- sanitaria della pandemia.
Ancora una volta il ”siamo prontissimi“ del premier Conte rischia di essere una fake new e il Paese rischia l’osso del collo. Senza riforme con l’accetta e continuando a galleggiare sull’idea che possiamo andare avanti a forza di bonus, alcuni assurdi o inutili, redditi di cittadinanza senza controlli, ristori e nazionalizzazioni di imprese decotte, da Alitalia a Ilva, a Mps, l’Italia potrà crescere al massimo di un 3% nei prossimi tre anni.
Crescita insufficiente a reggere il debito fatto durante la pandemia, allora il conto sarà salatissimo, con tagli di pensioni, nuove tasse e patrimoniali, come abbiamo già visto nel 2011.
Tutto il resto è fuffa.