di Giulia Misti

Photo by Toa Heftiba

Un buon proposito, per questa estate, facilmente attuabile: fuggire dalla routine quotidiana. Un’azione che in giapponese è espressa dal termine datsuzoku, come suggerisce la ABEditore.

Tuffarsi nel mondo dei libri, specchio di realtà, astrazioni, finzioni, leggende è un ottimo esercizio di evasione. Un’immersione in preziose scoperte, in nuove misure di grandezza di rapporti umani e animali, in realtà tanto lontane quanto vicine. Passare da un mondo all’altro. È facile. Perché come diceva Stéphane Mallarmé “il mondo è fatto per finire in un bel libro”.

Foto di Анна Галашева

«“E come fai a sapere quando è cotto e quando invece si brucia?”

“Lo sento dal calore della brace quando la stendo per posare la griglia. Dipende dai legni, fanno fuochi diversi. Non c’è una regola e però non mi sbaglio.”

”Sei pure fuochista, chissà da chi hai preso?”

Da te,dovevo dirgli,da te ho preso e lasciato, restando figlio tuo, cranio da cranio, libri, vino e montagne. Scriverlo adesso a vita sua dispersa è tacere più profondamente.»

La paternità lega il genitore al figlio attraverso una corda tesa, da allentare, e fitta di nodi, da sciogliere, per permettere la libertà, la vita. Sono rapporti che si svolgono come dispute tra i nodi e il loro disfacimento, tra il rimorso, il pentimento, la riconoscenza, la ribellione, l’amore. Erri De Luca tocca quelle corde, intime, con il suo vocabolario mai banale, ma tagliente, vero, asciutto e dalla profonda e naturale postura lirica.

In A grandezza naturale (Feltrinelli) l’autore napoletano, attraversando il tempo, misura quel “gradino che produce il salto generazionale”, quello spazio tra genitori e figli di cui ritrae storie estreme. A partire dal ritratto liberatorio e risarcitorio che Marc Chagall fece del padre, dallo spazio che si creò tra una figlia e l’anziano genitore che scoprì nazista, e passando – immancabilmente  –  per la propria esperienza di figlio insofferente all’ordinario, De Luca, che conosce quella grandezza soltanto parzialmente non avendo compiuto quel salto generazionale, giunge al rapporto posto a fondamento del Cristianesimo, “il più difficile”, quello tra Abramo e Isacco, e a raccontare poi di colui che, pur non essendolo, agì da padre di 200 bambini. Era il direttore dell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia. «Negli abissi del disumano, il semplice umano abbaglia come la raffica di un lampo».

Foto di Taryn Elliott

«Ousmane era d’accordo nell’allontanamento della Bianca: “Isolarla nel suo mondo. Lasciarla marcire nello sconforto… Accettare senza reagire i suoi rimproveri… Prepararla alla fuga e ritrovare senza reagire un ruolo degno dei miei desideri, assicurandomi così di poter agire in piena libertà!” Ousmane fischiettava. Gli ultimi scrupoli che avevano attanagliato la sua coscienza ora s’inabissavano come il sole, laggiù, di fronte a lui, in quel vermiglio orizzonte, striato di viola, nel profondo blu del mare».

Strana coincidenza è stato incontrare La sposa bianca di Ousmane nel momento in cui il riso rituale cadeva sui novelli sposi davanti al Municipio cittadino. Due culture a confronto, come quelle che Mariama Bâ racconta nel romanzo postumo nel 1980.

Tante sono le storie, gli autori, le realtà editoriali di un mondo per lo più sommerso e ignorato, svelato dopo insistenze, dopo rifiuti o, nella migliore delle ipotesi, anche al primo incontro, alla prima proposta, prima che il gesto scortesemente eloquente della mano o del capo o una frase di diniego allontanino il “fastidio”.

Voce del’emancipazione femminile in Senegal, Mariama Bâ con La sposa bianca di Ousmane (Premio letterario di Berlino), edito da Giovane Africa Edizioni, affronta le tematiche dei matrimoni misti, della poligamia, del razzismo bianco e del razzismo nero, della condizione della donna nel Paese africano. Temi attualissimi, come purtroppo la cronaca insegna.

Ambientata a Dakar alla fine degli anni Sessanta, la storia vede Ousmane, giovane senegalese di umili origini, e Mireille, figlia di un agiato diplomatico francese, incontrarsi, innamorarsi, sposarsi. Mentre lei si converte, lui tradisce i valori occidentali inizialmente abbracciati. La manifestazione del razzismo verso i “Bianchi”, ancorato a rigide ed ataviche tradizioni, pone l’accento sulle difficoltà e sulle contraddizioni a fondamento dell’impossibilità di un incontro e di un dialogo tra i popoli. Le parole di Mariama Bâ, i cui testi oggi in Senegal sono libri di testo scolastici, fotografano uno spaccato della civiltà e della cultura Senegalese.

«“Aissatou, ho ricevuto la tua lettera e come risposta apro questo quaderno, quale sostegno al mio smarrimento: la nostra lunga amicizia mi ha insegnato che la confidenza annienta il dolore.

(…) Se i sogni muoiono con il passare degli anni e delle realtà, io custodisco intatti i ricordi, sale della mia memoria. Ti invoco e il passato riemerge con il suo corteo di emozioni. Chiudo gli occhi. Un fluire e rifluire di sensazioni. Chiudo gli occhi. Un fluire e rifluire di immagini. (…) Lo stesso percorso ci ha condotte dall’adolescenza alla maturità, dove il passato feconda il presente”».

Opera prima di Mariama Bâ, Una così lunga lettera (Giovane Africa Edizioni), è un romanzo epistolare che ha il tocco dolente e profondo di un’amicizia femminile: quella tra Ramatoulaje, da poco vedova, e Aissatou, da poco divorziata. È la prima a dare inizio ad una lunga, toccante ed intima lettera in risposta alla seconda. Il valore dell’amicizia, l’educazione dei figli e l’abbandono si uniscono qui agli altri temi “cari” all’autrice. Cervantes diceva che la penna fosse la lingua dell’anima. Certamente questo così lungo scritto ha parlato attraverso quell’idioma. La quarta di copertina recita: “Un capolavoro della letteratura africana”. Cico, Cheikh, grazie.

Foto di Karolina Grabowska

«Quando eravamo nuove, Rosa e io stavamo a metà-negozio e vedevamo più di mezza vetrina. Perciò potevamo guardare fuori. E se ci trovavamo lí all’ora giusta, vedevamo il Sole in cammino attraversare le cime degli edifici. Quando avevo la fortuna di vederlo così, sporgevo avanti la faccia per assorbire il massimo del nutrimento. AA M Rex che stava accanto a noi allora ci disse di non preoccuparci, che il Sole trovava sempre un modo per raggiungerci ovunque fossimo. Indicò le assi del pavimento e disse: – Il disegno per terra è quello del Sole. Anziché preoccuparvi, basta che lo tocchiate per recuperare le forze».

È Klara che parla. La sua voce è infantile e ingenua. Il desiderio di fare amicizia per il quale è “nata” viene esaudito incontrando Josie, una ragazzina di quattordici anni.

Klara è uno degli AA, Amici Artificiali – sofisticati umanoidi di generazione B2 – ad alimentazione solare e dalle fattezze anagrafiche di coloro che diverranno i loro “padroni.

Sono, infatti, oggetti d’acquisto da parte dei genitori per tenere compagnia, proteggere e guidare i propri figli. In un’America distopica, virante nel fantascientifico, il premio Nobel per la Letteratura nel 2017 Kazuo Ishiguro con Klara e il Sole (Einaudi) ambienta una malinconica riflessione sull’umanità, sulla condizione umana, sul suo futuro , sulle conseguenze dello sviluppo tecnologico sull’uomo, ritornando così ai temi della tecnologia e dell’intelligenza artificiale presenti in Non lasciarmi.

Parlando per voce di Klara – voce narrante in una lingua che nella limpidezza e nella semplicità ha il suo punto di forza – Ishiguro scandaglia nel profondo le emozioni umane domandandosi cosa significhi essere umano e tentando di rispondere attraverso ciò che umano non è.

«La stranezza di quel luogo, un pezzo di Sardegna trapiantato in Toscana, lo turbava ed eccitava al tempo stesso. Si sentiva catapultato in un mondo diverso, come quando, nei sogni, inspiegabilmente, si passa all’improvviso da una situazione a un’altra del tutto differente. C’era odore di formaggio, di capre, di cacca di capre, e forse, bastava quel fetore a mutare la sua identità, le sue concezioni, la sua morale. Gli venne spontaneo salutarsi, dirsi “Addio Borrani”».

Nessun estremo saluto. Calma! Soltanto la presa di coscienza da parte del principe del foro livornese di essere entrato nel caos, nella condizione naturale dell’umanità, riappropriandosi così della sua vera natura ossia la follia e perdendo il proprio “centro di gravità permanente”. Ne L’uomo col chihuahua (Pendragon) Giuseppe Benassi fa vivere al suo protagonista seriale, l’avvocato Leopoldo Borrani, situazioni ancora più ambigue, pericolose ed estreme per la “morale comune”, ma dalle quali ha sempre subito una tacitata attrazione, percependo turbamento ed eccitazione. Per la risoluzione di un caso, prima banale e bizzarro, poi drammatico e sempre più intricato, si ritrova immerso nel mondo gay, con le sue consuetudini, le sue contraddizioni, le sue aggettivazioni. Da una semplice violazione di domicilio, con annesso furto di Nutella, all’omicidio dell’uomo dal sorriso mellifluo, effeminato, “avvolto da un’aura di perversione” che si era palesato nel suo ufficio  in compagnia di un piccolo “mostro” peloso –  il cui intervento si dimostrerà poi provvidenziale – prende l’abbrivio una nuova tragicomica avventura del virtuale collega – nonché alter ego – dell’avvocato e scrittore reggiano Giuseppe Benassi. Una nuova storia raccontata con ironia, senza infingimenti, senza diplomazia, lungi da bigottismi, ipocrisie ed eufemismi, e con personaggi naturali, sopra le righe calati in scene e ambientazioni dall’eco ozpetechiana.

Molti sono i temi presenti cari all’autore: la Toscana, gli animali e i “loro spiriti”, l’aldilà, il soprannaturale, la storia, le leggende, la letteratura, la filosofia. Celata c’è anche la musica con le note di Franco Battiato il cui mentore fu Gurdjieff, filosofo e mistico armeno amato anche dall’avvocato livornese.

“L’inconscio sa sempre dove portarmi”, si dice l’avvocato… e forse anche alla ricerca del centro di gravità permanente perduto.

«Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero. Mi chiamarono ninfa, presumendo che sarei stata come mia madre, le zie e le migliaia di cugine. Ultime fra le dee minori, i nostri poteri erano così modesti da garantirci a malapena l’immortalità».

È coraggiosa, indomita, fragile, passionale. È bella per le sue imperfezioni. È una dea, è una maga. È una donna. La sua migliore amica è una leonessa. Parla ai pesci, distilla la pioggia e il sale delle onde. È un’amante, una madre. Nonostante sia un’immortale, preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dèi. Figlia di Elios, dio del Sole e della ninfa Perseide, a causa dei suoi difetti viene bistrattata dalla famiglia, con la quale nulla condivide, ed esiliata sull’isola di Eea. La sua figura si interseca con Dedalo, col Minotauro, con Scilla, con Giasone, con Atena, con Medea, con Odisseo, con Penelope. È Circe, la maga della mitologia greca riduttivamente notoria perché innamorata di Ulisse e capace di trasformare gli uomini in maiali. Ma è molto, molto di più.

Medeline Miller con Circe (Sonzogno editore) dona una rilettura di questo personaggio complesso e carismatico, approfondendo anche psicologia e carattere.

Vincitore del premio Goodreads Choice Awards 2018 per la categoria Fantasy, Circe è divenuto un ritratto di riferimento simbolo di forza e indipendenza, nonchè un testo didattico adottato nelle scuole.

«Ed egli portò la fata in casa, la quale crebbe in modo sorprendentemente veloce; prima che fossero passati molti giorni, ella divenne una fanciulla alta ed elegante, fresca e bella come il mattino, splendente come il mezzogiorno, dolce e tranquilla come la sera e profonda come la notte. Take Tori la chiamò la Ragazza Splendente, perché uscita dal gioiello luccicante».

In Green Willow and other Japanese Faiy Tales, nel 1910, Grace James raccolse la quasi totalità della mitologia giapponese proveniente da fonti tramandate oralmente ed altre soggetto di rappresentazioni teatrali. Da tutto questo scibile Valentina Avallone ha selezionato cinque storie (La Ragazza della Luna, La Lanterna di Peonie, Yuki Onna, La Terra di Yomi, La Storia si Susanoo, l’Impetuoso) racchiudendole in Datsuzoku. Ricordi dal Giappone (ABEditore). Avvolte da un’aura ombrosa, queste Fiabe e leggende ritrovate sono brevi racconti messaggeri di valori e significati attraverso i quali è possibile conoscere la peculiare cultura e la magica e suggestiva anima del Sol Levante.

Sostanziano la preziosità e la bellezza del volume l’attenzione e la cura – tratto distintivo della Casa Editrice – dei materiali impiegati, del lettering, delle illustrazioni (molte di Hokusai) a colori e in bianco e nero. Un appagante viaggio sensoriale.

Ai sostantivi che in altre lingue non trovano una precisa traduzione appartiene il termine Datsuzoku che in giapponese significa “fuga dalla propria routine quotidiana”. Ad “archetipo” di questa evasione Valentina Avallone e ABEditore eleggono il libro, abilissimo nel permettere di varcare la soglia della noia routinaria per entrare in altri mondi e dimensioni.

«Cari amici, rispose il coniglio dopo aver ascoltato in silenzio quello strano racconto, “non preoccupatevi. Volete una vendetta? L’avrete. Sarò io stesso a occuparmene. Parola di coniglio, non dovrete attendere a lungo!” Il tasso nella sua tana si annoiava a morte. Un bel giorno il coniglio andò a trovarlo: “Mio caro, non è restando qui che guarirai. Guarda che splendida giornata è oggi!! Andiamo sulla montagna a raccogliere la legna. Il tasso non aveva alcun motivo per sospettare che il dolce coniglio bianco volesse il suo male. Così, senza esitare, accettò l’invito».

Appartengono sempre alla mitologia giapponese le atmosfere leggendarie e fiabesche, alla maniera di La Fontaine, raccolte dal padre missionario Claudius Ferrand. Oltre ad essere complici di fuga sono anche sodali di diletto in Favole e leggende del Giappone, sempre per ABEditore e a cura di Annarita Tranfici e di Giuseppina De Vita.

Basato sul Kojik, la più antica raccolta di miti, leggende e storie nipponiche,  il volume contiene 13 otogibanashi (da hanashi, “racconto”, e otogi,“tenere compagnia”). Una sorta di apologhi in cui la morale non sempre è palesemente esplicitata e in cui i personaggi, talvolta animali, simboleggiano peccati, debolezze e pregi dell’uomo. Immancabili sono le illustrazioni e la carta vergata della copertina è una novità.

Da Ourashima Taro e la Dea dell’Oceano a La vendetta del coniglio, da Il mostro Yatama a L’unico ombrello, da Le avventure di Benké a Il vaso di Kompéito, da I ratti al tempio a Il passerotto senza lingua si legge la poesia e il sentire differente di un popolo avvolto da suggestioni miyazakiane.

«Con questo libro non prometto assolutamente di smettere di pensare, ma almeno di smetterla di comunicare i miei pensieri e le mie opinioni, tranne in eventuali casi di grave emergenza morale. Anche se non voglio essere un ‘artista impegnato’, ho cercato in questi testi di persuadere i miei lettori della validità dei miei punti di vista, qualche volta sul piano politico, ma più spesso su diversi ‘temi sociali’, qualche volta su temi letterari. Ho cercato di classificare questi ‘interventi’ in ordine cronologico, per quanto ricordassi delle date. L’esistenza almeno apparente del tempo è sempre stata una grande fonte di fastidio per me; ma si è acquisita l’abitudine di vedere le cose in questi termini. Per questa volta, quindi, mi adatto».

O si odia o si ama. Nessuna sfumatura di sentimento verso Michel Houellebecq che con Interventi (La Nave di Teseo) propone una silloge di sue riflessioni presenti in interviste e articoli pubblicati nell’ultimo decennio riguardanti il mondo in cui viviamo, il tempo, il conformismo imperante, le derive dell’individuo e della società, le proprie idiosincrasie, il furore delle passioni che lo hanno sempre animato. Riflessioni divisive, dissacranti, pungenti.

Colui che disse “che il mondo è sofferenza dispiegata” il 2 luglio sarà ospite della Milanesiana, la rassegna culturale ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, nell’incontro dal titolo A che cosa servono gli uomini?.In quella sede Houellebecq riceverà anche il Premio Jean-Claude e Nicky Fasquelle, istituito quest’anno in memoria dei due editori francesi recentemente scomparsi.

«Come vi sentireste se la vostra identità fosse messa in dubbio? Se qualcuno vi attribuisse un luogo di nascita a caso o, peggio, tentasse di rifilarvi una madre o un padre che, forse, nulla hanno a che fare con voi? Vi sentireste come me: persi in un bicchier d’acqua…sì, lo so, lo so, la battuta non l’avete ancora capita. Dunque, mi presento: sono  il Señor Mojito . Su di me sono stati spesi ettolitri di acqua, per l’appunto, ma anche fiumi di inchiostro nel tentativo di capire da quale mente io sia nato».

Da Mojo di origine voodoo traducibile in “incantesimo” piace pensare al Señor Mojito che derivi il proprio nome. A questo cocktail ammaliatore Michele Piagno dedica un libro in cui, con ironia e originalità, narra una favola capace di appagare i cinque sensi:  quella dell’arte liquida in cui l’eccezionalità deve appartenere sia alla bevanda sia al suo creatore. Pluripremiato, esperto in mixologia molecolare, “il” barman Michele Piagno  desideroso di fare conoscere il proprio mondo svincolato da vecchi stereotipi, ne EL SEÑOR MOJITO. Cinquantuno ricette e alcuni segreti (Corsiero Editore – Curatela di Igor Damilano e Cinzia Lacalamita) riporta trucchi, curiosità, aneddoti relativi al mestiere ed illustra 50 ricette facilmente replicabili, 50 declinazioni dell’amatissimo cocktail a base di menta: dall’Original Mojito al Luxury Mojito, dal Mojito al caffè, al cocco, alla zucca, al Royal Mojito, dal Mojito della Regina al Tennessee Mojito, sino alla cinquantunesima ricetta, l’azzardo, il Mojito Tricolore, contenente anche siero di Parmigiano Reggiano.

Che si dia, dunque, inizio a questa fuga dalla routine (nell’infinito mondo dei libri) …magari sorseggiando un fresco Señor Mojito. Echale a eso!