È un’immagine che vediamo spesso nei libri di Storia dell’arte, nelle chiese e nei musei: Cristo in trono, agghindato come un imperatore, con lo sguardo ieratico che accenna il segno della benedizione. Immagini simili risalgono spesso al medioevo e sembrano fredde e distanti, ritratti sia pure imperfetti di un Dio giudicante, ma in realtà il messaggio che vogliono trasmettere è più profondo e complesso.
L’espressione maestà di Dio ricorre in tutta la Bibbia, antico Testamento compreso e nel Nuovo Cristo non manca di attribuirsi il titolo di re, ma al contempo rigetta e rimprovera le aspettative degli apostoli, convinti che rovescerà i romani e regnerà su Israele come un re terreno. “Il mio regno non è di questo mondo”, chiarisce e addirittura svela che la sua regalità si basa sul servizio: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. La regalità di Cristo ha dunque basi e caratteristiche quanto mai lontane da quelle di re o imperatori.
Allora perché tante opere d’arte sembrano suggerire altrimenti?
Perché Cristo è sì Amore, Misericordia ed esempio eccelso di umiltà, ma anche il Logos, colui senza cui niente è stato fatto di ciò che esiste, Figlio del Padre e sua più diretta manifestazione dell’amore per gli uomini. L’Apocalisse e altri passi del Nuovo Testamento non fanno mistero del fatto che la sua regalità sarà manifesta agli uomini alla fine dei tempi e dal trono giudicherà (e separerà) i salvati e i dannati. Per questo motivo la Bibbia e un gran numero di libri devozionali si raccomandano di accompagnare all’amore il timore, inteso non come paura di Dio, bensì di tenere presente che è pur sempre Dio. Un innamorato (e ricambiato) può credere che la persona amata risponderà sempre ai suoi desideri, non si arrabbierà mai con lui e gli verrà sempre incontro anche nel torto, ma con Dio non è così, è ingiusto sottovalutarlo o lamentarcene come fossimo clienti scontenti per un cattivo servizio.
Nel medioevo avevano molto presente questo aspetto e l’idea che Dio fosse l’origine ultima di ogni tipo di autorità, compresa quella terrena e laica, che ne costituiva un minimo riflesso. L’ordine originario prima della caduta era perfetto, senza vizi, morte o dolori e alla fine dei tempi tutto tornerà a essere sottomesso e gradito a Dio. Come trasmettere questa idea di regalità nelle immagini? Dando a Gesù le insegne del potere più grande allora concepibile: quello imperiale.
Anche il segno della benedizione è mutuato da immagini romane: com’è possibile? Inizialmente quel gesto invitava a fare silenzio perché un personaggio importante stava per parlare. Perciò il significato originario del Cristo in trono con il libro aperto era semplicemente un invito a fare silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Il significato del gesto diventò poi quello che conosciamo – la benedizione – ma in realtà i due significati non sono in contrasto. Per ricevere le virtù dello Spirito Santo e la benedizione divina, al fedele è prima richiesto di fare silenzio in sé stesso. Se ci si parla addosso in maniera frenetica si diventa impenetrabili alle parole e alle azioni di chi cerca di farci del bene e consolarci, comprese quelli di Dio.
Nel museo diocesano vi è più di un Cristo in trono: quello più grande è al centro del maestoso affresco che un tempo adornava la facciata del duomo, ma quello che forse più si avvicina a dare l’idea di questa regalità e un crocifisso d’argento. Sul davanti Gesù è morente sulla croce, ma sul retro quello strumento di tortura e umiliazione diventa il trono da cui egli regna nella gloria. Servizio e sacrificio di sé fino all’umiliazione e alla morte formano un tutt’uno con il trono di questo Re.