
di Giuseppe Adriano Rossi
REGGIO EMILIA – 35 anni or sono, il 10 settembre 1989 il vescovo Gilberto Baroni concludeva con una solenne concelebrazione eucaristica presieduta in piazza dl Duomo alla presenza del clero, delle autorità civili e militari e di migliaia di fedeli il suo lungo e prezioso episcopato in terra reggiano-guastallese.
Aveva fatto il suo ingresso a Reggio Emilia il 6 giugno – domenica di Pentecoste- del 1965 chiamato da Paolo VI a succedere al vescovo Beniamino Socche.

Quasi un quarto di secolo è durato il suo ministero episcopale nella diocesi, traghettandola con grande pazienza nel dopo Concilio, avviandola ad una ampio cammino di rinnovamento sotto il profilo liturgico, preoccupandosi della formazione del laicato, facendo del Centro Giovanni XXIII in via Prevostura – Casa dell’apostolato dei laici – la sede di decine di associazioni laicali e il luogo privilegiato di dialogo della Chiesa reggiano-guastallese con la comunità civile, convocando un Sinodo diocesano sull’evangelizzazione e favorendo le missioni diocesane in Madagascar e Brasile.

Nell’omelia di quella solenne Messa vespertina non nascose la difficoltà del distacco dalla diocesi che aveva generosamente servito per quasi cinque lustri: “La sofferenza dei distacchi, la nostalgia per il tempo che inevitabilmente scorre non sono un impedimento; sono venature che non annullano; al contrario, rendono più bello e più vero l’inno di riconoscenza alla bontà di Dio. È stupenda la giovinezza! È bella la maturità! Ma è preziosa anche la vecchiaia: allora, l’affanno dei diversi impegni, delle diverse attività si quieta, e l’uomo gusta la gioia della semplicità, rifà l’unità della sua esistenza. Il cuore sente più vicino l’incontro con il Signore, e quindi il compimento della sua speranza”.
Nodale è questo passaggio dell’omelia per comprendere l’amore profondo che ha legato il vescovo Gilberto alla sua Chiesa: “Quanti i doni del Signore!I volti delle persone che mi hanno amato e che io ho amato! E poi, gli eventi della mia vita, i tanti momenti di grazia: il battesimo, la cresima, la Comunione, l’ordinazione sacerdotale e poi episcopale. Ma soprattutto voglio ricordare il legame di amore che mi ha unito alla terra e alla Chiesa reggiano-guastallese, a questa città, in quest’ultimo quarto di secolo! Ringrazio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi fratelli carissimi, e ringrazio tutti voi, qui convenuti da ogni parte, per questa Assemblea di comunione: preti e diaconi, laici, religiosi e fedeli; ringrazio Autorità, amministratori, mezzi di comunicazione sociale e cittadini laboriosi e stimati di questa terra generosa! Prego sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, poiché è sì decaduto il vincolo giuridico; ma non è decaduto e non decadrà mai il vincolo di paternità e di amicizia che mi lega per sempre a questa Chiesa, a questa città e a ciascuno di voi!”
L’anno prima mons. Camillo Ruini che di mons. Baroni fu vescovo ausiliare così lo definì in modo lapidario ed assai efficace: ““Il vescovo, uomo di Dio, sposato alla sua Chiesa”. E lo stesso vescovo Gilberto, spentosi 25 anni or sono il 14 marzo 1999, volle essere sepolto nel Duomo di Reggio Emilia, dalla cui cattedra episcopale ha elargito il suo prezioso e generoso magistero. A lui è intitolata alla Baragalla la via su cui insiste la nuova chiesa del Sacro Cuore.

Inoltre, mons. Baroni non nascondeva che il suo saluto assumeva anche il valori di un testamento spirituale: “Vi affido al Vangelo di Cristo. Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento. In questa parola c’è il senso stesso della vita cristiana e, ne sono profondamente convinto, il senso stesso del mondo, il suo unico fondamento solido”.
Il vescovo Gilberto volle quindi riservare “due parole”:una a tutti i reggiani, credenti e non; la seconda in particolare alla comunità cristiana.
“A tutti ricordo il comandamento di Cristo: amatevi gli uni gli altri così come io ho amato voi. Questa eredità che il Signore ci ha lasciato, deve essere custodita con premura nei nostri cuori, perché da essa dipende il futuro non solo religioso, ma sociale dell’umanità. Se il mondo è ancora in piedi, se non è ancora crollato sotto il peso degli egoismi e degli interessi contrapposti, questo è perché ci sono numerose persone che sanno amare e che perdonano; che usano mitezza nei rapporti con gli altri; che mantengono l’onestà a tutti i costi”. E aggiungeva un‘ulteriore riflessione: “Cent’anni fa nella nostra terra la fede in Cristo era patrimonio comune. Mi chiedo: abbiamo davvero fatto un passo avanti, quando-abbiamo incominciato a dimenticare Gesù Cristo? Siamo ora davvero più forti spiritualmente per affrontare le sfide del futuro? O non siamo piuttosto sguarniti, indifesi, costretti a vivere alla giornata? Cristo non è oppio dei popoli, ma luce, vigore, libertà. Cristo non mette in pericolo nulla, se non il nostro egoismo; non ci preclude alcuna libertà, se non quella dell’irresponsabilità, dell’odio, della cattiveria”.
E aggiungeva: “La seconda parola è per la Chiesa reggiana, che ho amato con tutto il cuore in questi anni e amerò sempre. Questa Chiesa è la sposa di Cristo, bella, ricca di tanti doni di grazia, feconda nella forza dello Spirito Santo! Costituisce con Cristo e in obbedienza a Lui, la vite feconda che deve portare frutti di amore e fraternità. Sogno delle comunità cristiane che vivano in obbedienza alle parole del Vangelo; che senza essere perfette – la perfezione non è di questo mondo -, cerchino con sincerità di lasciarsi plasmare dallo Spirito di Cristo, che è spirito di povertà, fraternità, mitezza. Non solo dobbiamo fare i conti coi nostri egoismi e gli interessi diversi; ma con tutti i nostri limiti, le immaturità, le timidezze, le abitudini, le antipatie”.
E alla sua Chiesa lasciava questo compito: “Le comunità cristiane devono diventare luoghi nei quali si impara e si pratica la fraternità, sarà la vita stessa a rendere testimonianza, a far capire che la fede non è uno strumento usato per avere gratificazioni psicologiche, o per giustificare interessi mondani; ma che la fede è vera sorgente di speranza e di amore. Solo questo, potrà rendere credibile la nostra testimonianza. Il senso del cristianesimo è nella comunicazione della gioia di Dio,che, nei nostri cuori, ci renda liberi per l’amore e per il dono”.
Riferendosi al suo motto episcopale «Ad Coelum aedificemur» raccomandava che la vita terrena di ciascuno fosse costruita verso il cielo, cioè verso Dio e a lui orientata. “Questo è tanto più necessario in una società opulenta, che rischia di sommergerci con le sue proposte di beni effimeri, di idoli da adorare al posto di Dio! La fede cristiana si presenta come sorgente autentica di libertà, che difende l’uomo da ogni pericolo, di spersonificazione e di superficialità”.
E concludeva l’omelia con questa preghiera a Dio, attraverso l’intercessione della Madonna, per tutti i reggiani e i guastallesi “che amo e amerò con gioia, finché il Signore mi darà vita”: perché conceda loro di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore”.




