Di Giuseppe Giovanelli
REGGIO EMILIA – Giunge al tramonto la stagione dei preti formati nella guerra o nei decenni immediatamente successivi e ci si accorge di un fatto di non poca gravità: con la loro scomparsa scompare la memoria di quella che è stata la Chiesa reggiana del loro tempo. O, tutt’al più, ne resta la memoria travisata della stampa del vecchio e del nuovo anticlericalismo. Sono dunque benvenute tutte le iniziative che, ogni qualvolta ci lascia un sacerdote di questa generazione, tendono a raccoglierne ogni possibile documentazione della sua vita e del suo operato. Non è ancora la biografia critica, che ha tempi “storici”, ma un salvataggio della memoria viva fatta di scritti, opere pastorali, riscontri affettivi e culturali di chi ha vissuto con lui gli anni del suo impegno sacerdotale e che costituiranno, in un domani non lontano, materia di lavoro per gli storici. Un archivio ad hoc è auspicato da più studiosi della storia della Chiesa in più diocesi italiane.
Risponde esattamente a questo fine il libro curato da Giuseppe Adriano Rossi assieme agli amici Germana De Vito, Anna Giovanardi, Lorenzo Morani e Luciano Vallery, in risposta anche a un invito dell’arcivescovo monsignor Giacomo Morandi di raccogliere subito la documentazione della vita, dell’insegnamento, dell’esempio didon Emilio Landini. Egli, infatti, con i tanti incarichi avuti, ha segnato la vita della Chiesa reggiano-guastallese nei suoi momenti più delicati: la trasformazione del seminario da “vivaio” chiuso e protetto a luogo di una formazione dialogica con il mondo in cui i nuovi presbiteri dovranno operare, pronti alle ulteriori trasformazioni che stanno caratterizzando il mondo moderno; l’insegnamento della teologia morale da disciplina di studio, spesso intesa come somma di divieti, ad approfondimento del messaggio di Gesù per coglierne ogni via apportatrice di amore, di libertà,di fedeltà al Vangelo inteso come annuncio di vita nuova che, in Cristo, offre risposte propositive e liberatrici, non limitative; l’interazione con il mondo: provenendo da una Chiesa che, a seguito anche degli avvenimenti bellici, tendeva a chiudersi agli avversari del Cristianesimo, egli ricordava che il Vangelo è per tutti, soprattutto per i più lontani. Lo diceva ai giornalisti che gli erano accanto: gli articoli di fondo, la cronaca, la stessa pubblicità devono essere attrattivi per chi è più lontano, devono avere un sottofondo di incontroche susciti interesse e simpatia.
In tutto ciò egli dava l’esempio tangibile e spontaneo di chi non si stanca mai di inseguire la verità, di scoprirla al di sotto delle varianti del linguaggio, aldilà delle simpatie o delle antipatie, di verificarla nelle contingenze della vita. Lieto di correggerne e di perfezionarle le formulazioni verbali. E perché sentiva la Chiesa come la sua famiglia, avvertiva che l’esperienza cristiana è un cammino che troverà la sua sosta soltanto nell’incontro finale con Cristo. E la “conversione” non è altro che un “convergere” verso Cristo (avere Cristo per propria bussola, avrebbe detto monsignor Beniamino Socche, il vescovo che lo ha ordinato) ogni giorno, in ogni scelta.
È in questo senso che, quale responsabile diocesano della “comunicazione”, don Emilio avvertiva l’importanza di curare la cronaca, di documentare i fatti della vita ecclesiale, ancor più – si poteva dire – che non gli articoli “formativi”, i quali acquistano valori se accompagnati dai “fatti”: oggetto di una cronaca che non può mancare nel complesso mondo della comunicazione. La diversità e la complessità degli incarichi ricevuti dicono di una preparazione ampia, aperta ai più diversi compiti della vita della Chiesa e, nello stesso tempo, di una disponibilità al servizio senza limiti. Non che accettasse sic et simplicter ogni nuova proposta. Tutt’altro: risulta che la discutesse, che la valutasse, che si interrogasse sulle sue capacità, e che, una volta detto il sì, confidasse sulla guida e sull’aiuto tanto dei superiori come dei collaboratori. Era l’insegnante che imparava anche dagli alunni, soprattutto quando dalle linee teoriche si doveva scendere al concreto della pratica. Non era il dittatore, ma il consigliere che dà lumi a chi deve agire responsabilmente in prima persona. Anche in questo senso il suo insegnamento guidava ad una vita professionale o culturale “libera”.
Tutto ciò – e tanto altro che qui solo per elencarlo richiederebbe di ripercorrere il libro pagina per pagina – emerge dalle testimonianze del cardinale Ruini, degli arcivescovi Morandi e Rabitti, dei vescovi Caprioli, Camisasca, Parmegiani, Monari, Solmi, Regattieri, Castellucci e di oltre quaranta tra laici e sacerdoti che hanno avuto modo di averlo come insegnante, di collaborare con lui, o anche semplicemente di averlo avuto come amico e consigliere, soprattutto nei momenti difficili della vita. Questo per circa una metà delle 195 dense pagine. L’altra metà è costituita da documenti dello stesso don Emilio: scritti, profili biografici di confratelli, sempre molto brevi come richiesto dalle esigenze della comunicazione immediata, ma capaci di cogliere “l’anima” d’ognuno di essi.
E certo, avranno colto “l’anima” di don Emilio anche quanti ogni mattina, per oltre vent’anni, hanno amato svegliarsi ascoltando dalla sua voce, su “Radio Pace”, le novità della Chiesa Reggiana, del Papa, del Vescovo, concludendo poi l’incontro via etere con la preghiera di Lodi. Non so quanti fossero gli ascoltatori. Certamente molti di più di quanto abitualmente si calcolasse. Era davvero un sentirsi Chiesa, parte di una comunità che si trovava unita nella preghiera del mattino. Un trovare la Chiesa presente e viva nel mondo reggiano. Se ne ha la misura nel vuoto lasciato dallo spegnimento della voce di Radio Pace, totale nella parte montana che tanto interessava (e costava) a don Emilio.
Chi scrive può testimoniare quanto indimenticabile è il ricordo di chi, qualche mattina, ha materialmente sperimentato la recita di Lodi accanto a don Emilio, nei seminterrati del Seminario. Un vuoto e un silenzio del tutto apparente perché dietro al microfono di don Emilia era quasi tangibile la presenza di migliaia di persone unite nella preghiera. L’uscita del libroè l’augurio che il lettore possa cogliere “l’anima” di don Emilio e avvertire questo senso della comunità ecclesiale reggiano-guastallese anche attraverso la lettura di queste pagine. Grazie, dunque, a chi le ha volute e a chi le ha scritte.